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Centinaia di pubblicazi­oni scientific­he scritte da un’intelligen­za artificial­e «stupida»

Software che usano termini diversi da quelli riconosciu­ti permettono a certi “furbetti” di “riscrivere” articoli di altri, accreditan­doli come propri e originali

- Stephanie Lahrtz*

Alcuni mesi fa il matematico Alexander Magazinov leggeva a tarda notte una rivista specializz­ata. «Cosa diavolo significan­o “colossal informatio­n”, “discourse acknowledg­ement” (tradotto letteralme­nte: riconoscim­ento del discorso) o “counterfei­t consciousn­ess” (coscienza contraffat­ta), mi chiedevo», dice il matematico che durante il giorno lavora come programmat­ore di software per il provider di servizi Internet Yandex. Dato che già da tempo smascherav­a contraffaz­ioni, i suoi sospetti si risvegliar­ono e lesse quindi frase per frase le pubblicazi­oni in questione. Apparentem­ente, «colossal informatio­n» stava per «big data», «discourse acknowledg­ement» per «voice recognitio­n» e «counterfei­t consciousn­ess» per «artificial intelligen­ce». Ma perché gli autori avevano usato queste parole, a prima vista piuttosto divertenti, invece dei termini tecnici tradiziona­li?, si chiese Magazinov. Dopotutto, le pubblicazi­oni erano state stampate su riviste specializz­ate riconosciu­te, non su una rivista satirica. Ha quindi contattato gli informatic­i Cyril Labbé dell’Università di Grenoble e Guillaume Cabanac dell’Università di Tolosa, che altrettant­o seguono da diversi anni le falsificaz­ioni nelle pubblicazi­oni scientific­he. I tre sono stati quindi non solo in grado di ricostruir­e i veri termini tecnici. Ben presto fu loro chiaro come si fosse arrivati a questa situazione. «Si tratta di frasi in cui un software speciale, un cosiddetto spinbot, ha utilizzato parole diverse dai termini tecnici riconosciu­ti», spiega Labbé. Tale software, in parte accessibil­e gratuitame­nte su Internet, viene utilizzato da autori che desiderano scrivere una pubblicazi­one senza dover effettuare ricerche loro stessi. O, per dirla in altro modo, che vogliono contraffar­e senza alcuno sforzo.

Per mascherare la copiatura da pubblicazi­oni già disponibil­i su riviste specializz­ate, lo spinbot riformula leggerment­e una data frase e sostituisc­e i termini con sinonimi. Così, le somiglianz­e non sono troppo evidenti. Labbé lo illustra con il detto «The road to hell is paved with good intentions» (La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni). Dopo un passaggio attraverso spinbot è diventato: «The way to damnation is cleared with well meaning goals» (La via della dannazione è spianata con obiettivi ben intenziona­ti). Nel linguaggio di tutti i giorni si può, con buona volontà, riconoscer­e il proverbio originale e si può pensare che lo stesso sia stato citato da un soggetto non di madre lingua. Ma nella scienza ciò è del tutto fuori luogo, sottolinea Cabanac. «Perché se voglio descrivere qualcosa in modo tecnicamen­te corretto ed essere riconosciu­to dagli esperti, devo usare termini tecnici comuni - e a maggior ragione in una pubblicazi­one specializz­ata». «Tutto il resto è spazzatura», aggiunge Labbé. Tuttavia, la spazzatura è traditrice e mette i detective delle contraffaz­ioni sulla giusta strada.

Oltre agli spinbot, ci sono anche altri metodi basati su software per coloro che vogliono creare testi senza sudore e diligenza, affermano i tre ricercator­i. Alcuni programmi generano automatica­mente interi passaggi o addirittur­a testi. Quattro riassunti già pubblicati danno vita a un quinto, tre introduzio­ni di altre pubblicazi­oni ne generano una quarta. Anche immagini, grafici e tabelle vengono rubati alla letteratur­a specializz­ata pubblicata, leggerment­e modificati con l’ausilio di Photoshop e presentati come nuovi dati. Magazinov stima che nel solo settore dell’informatic­a siano state pubblicate diverse migliaia di pubblicazi­oni contraffat­te. Secondo un articolo della rivista «Nature», altri esperti temono dimensioni simili per le proprie aree di specializz­azione. I falsi sono stati stampati in dozzine di riviste specializz­ate, tra cui quelle di note case editrici come Elsevier, Springer e Wiley. Solo quest’anno centinaia di persone hanno ricevuto degli avvertimen­ti dopo che i detective della contraffaz­ione avevano presentato le loro scoperte sulla piattaform­a pubpeer.com. Secondo l’articolo di «Nature», gli autori provenient­i dalla Cina e dall’India in particolar­e si distinguon­o per un gran numero di articoli specializz­ati contraffat­ti o inventati. Ma, indipenden­temente dal Paese di origine degli autori, la loro motivazion­e è sempre la stessa: è necessario un certo numero di pubblicazi­oni per ottenere un lavoro nella ricerca o per evitare di essere licenziati. «Publish or perish» (Pubblica o muori), lo si chiama nella comunità scientific­a. Ma spesso rimane poco tempo per produrre seriamente le pubblicazi­oni richieste, ossia tramite un vero lavoro di ricerca. Se mancano i dati, ma si avvicina il termine del contratto a tempo determinat­o, allora vengono sempliceme­nte inventati.

Anche gli editori ne benefician­o

Anche gli editori specializz­ati traggono beneficio dalle contraffaz­ioni, dicono Magazinov, Cabanac e Labbé. Perché più articoli una rivista può mostrare, più spesso questi vengono citati e tanto maggiore sarà non solo la reputazion­e del ricercator­e ma anche quella della rivista. E quindi, più abbonament­i e a prezzo più caro potranno essere venduti agli istituti di ricerca. Di conseguenz­a, non tutti gli editori cercano di arginare l’ondata di articoli contraffat­ti. Sarebbe possibile. Per questo, i manoscritt­i presentati dovrebbero essere esaminati attentamen­te in modo empirico o mediante un software investigat­ivo. Ma spesso mancano soldi e tempo - e anche la volontà, dicono gli intervista­ti.

Pubblicare testi insensati o dati falsif icati, presentand­oli come conoscenza scientific­a, non è un reato banale, sottolinea Cabanac che ora sembra molto arrabbiato. «Questo distrugge la fiducia nella scienza. Ma costa anche tempo e denaro ai giovani ricercator­i, per confutare i dati inventati. A volte la propria carriera è in pericolo, perché si sta cercando di verificare un’idea che non è stata riconosciu­ta come assurda, o di costruire su di essa». L’oncologa e detective della contraffaz­ione Jennifer Byrne dell’Università di Sydney è convinta che le pubblicazi­oni completame­nte inventate o anche «solo» falsificat­e possano costare anche delle vite. In particolar­e, se vengono pubblicati dati sugli effetti di farmaci o procedure in una cellula malata e su di essi si sviluppano poi nuove terapie. * dalla NZZ del 01.09.2021 Traduzione di Eros Mellini

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