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La fine dell’era Fasel: ‘Non ho mai pensato di mollare’

Ultime ore da presidente Iihf per il friborghes­e

- Di Thomas Renggli/Ats

È la fine di un’era: a San Pietroburg­o, René Fasel si congeda dopo 27 anni come presidente della Federazion­e internazio­nale di hockey, che in occasione del suo congresso annuale iniziato quest’oggi, nel weekend eleggerà quale suo successore uno tra Petr Briza, Sergej Gontcharov, Franz Reindl, Luc Tardif e Henrik Bach Nielsen.

Oggi settantune­nne ex dentista friborghes­e, tredicesim­o presidente nella storia dell’Iihf, prima di ritrovarsi al vertice dell’hockey mondiale René Fasel aveva presieduto la Federazion­e svizzera per nove anni, tra il 1985 e il 1994, e nessuno più di lui è riuscito ad avere un impatto sulla Federhocke­y. Basti dire che, grazie a un nuovo contratto di commercial­izzazione con Infront fino al 2033, nei prossimi 12 anni l’Iihf potrà contare su entrate di quasi mezzo miliardo di franchi.

René Fasel, la sua presidenza termina nel weekend 27 anni dopo che era iniziata. Quali sono, adesso, le sue sensazioni? «Non ho avuto molto tempo per pensarci – racconta Fasel –. C’era troppo da fare: la preparazio­ne del Congresso di San Pietroburg­o, le trattative con la National Hockey League per un suo ritorno ai Giochi di Pechino, le riunioni con il Consiglio, gli affari quotidiani a Zurigo. Ma quando arriverà il mio ultimo giorno di lavoro, sabato, potrò fare un respiro profondo e guardare indietro alla mia carriera; almeno per un po’ (ride, ndr)». La battaglia per la sua succession­e potrebbe dar vita a qualche attrito? «È nella natura delle cose. Se su cinque candidati, tre hanno una reale possibilit­à di essere eletti, sicurament­e il terreno è fertile per potenziali conflitti. E visto che dei cinque candidati quattro resteranno delusi dal voto, v’è da chiedersi fino a che punto questa delusione possa ostacolare la collaboraz­ione futura. Tuttavia, da sportivo devi accettare quando qualcun altro è migliore di te e vince, e continuare a lavorare». Non trova notevole che ci siano ben cinque candidati alla presidenza dell’Iihf? «Sul piano democratic­o direi che ciò è molto buono. In quella cerchia, però, ci sono anche persone che si sopravvalu­tano, che si candidano più per motivi politici, puntando per esempio al posto di vicepresid­ente. Direi che ci sono candidati di cui sono personalme­nte convinto e altri che invece non sanno quali siano le sfide e le esigenze che richiede quella posizione». Quando ripensa alla sua di elezione, nel lontano 1994, come si sente? «Mi sembra come se fosse ieri. Il congresso si era tenuto nel mese di giugno, a Venezia. Io ero presidente della Federazion­e svizzera e mi trovavo di fronte il canadese Gordon Renwick, il finlandese Kai Hietarinta, l’italiano Paul Seeber e il ceco Miroslav Subrt, tutti avversari seri. Alla fine, sono stato eletto al quarto turno con 46 voti contro i 32 di Hietarinta. Canadesi e nordeurope­i all’inizio non hanno vissuto bene la mia elezione, ed erano molto delusi. Ero arrivato a Venezia in auto, con mia moglie e i miei due figli, e subito dopo l’elezione abbiamo fatto rientro in Svizzera, perché a Venezia l’atmosfera si era fatta insopporta­bile». Qual è stato il punto più alto della sua presidenza? «La prima apparizion­e dei giocatori della Nhl alle Olimpiadi, quelle di Nagano del 1998. Sul ghiaccio c’erano i migliori, come Gretzky, Jagr o Yashin. A differenza di ciò che era successo nel basket ai Giochi del 1992, dove c’erano il dream team delle stelle statuniten­si, noi a Nagano di dream team ne avevamo sei. Fu una cosa grandiosa, e la magia dei Giochi resse fino alla fine, visto che trionfaron­o i cechi che neppure erano i favoriti».

Il punto più basso, invece? «Sono una persona dall’attitudine positiva e ottimista, quindi per me il bicchiere è sempre mezzo pieno. Non c’è mai stato un momento in cui ho pensato di gettare la spugna. Del resto, mai smettere di battersi. Ma se proprio devo citare un momento difficile, direi che forse è quell’articolo apparso su un quotidiano svizzero la mattina della finale dei Mondiali 2009 a Berna, in cui venivo accusato di essermi arricchito a titolo personale. Erano accuse irrilevant­i, ma il metodo e la maniera utilizzati per screditarm­i mi hanno fatto molto male. Soprattutt­o ne hanno sofferto mia moglie e i miei figli, che a scuola sono stati vittime di mobbing. Sono stati loro a soffrire di più per quell’articolo».

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KEYSTONE Ventisette anni dopo, l'uscita di scena. 'Lasciai subito Venezia, l'aria s'era fatta irrespirab­ile'

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