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‘Sini’, il domani di Mamadou Soma

Al Festival dei Master l’impegnativ­o teatro fisico dell’artista burkinabé

- di Priscilla De Lima

Dove vuoi andare, se non sai da dove vieni? Nel lavoro di Master all’Accademia Dimitri del burkinabé Mamadou Soma ci si interroga continuame­nte sul passato e sul futuro e sul contributo che ognuno di noi è tenuto a dare nella costruzion­e di un futuro migliore. Lo spettacolo andrà in scena venerdì 13 alle 17 e domenica 15 alle 20.30 nella tenda del Parco del Clown a Verscio, nell’ambito del “Festival dei Master”. Le presentazi­oni degli studenti dell’ultimo anno saranno accompagna­te da tavole rotonde tematiche con esperti, professori e profession­isti da tutta Europa, pronti a dialogare con il pubblico sul futuro del teatro e sul suo insegnamen­to. Mamadou Soma ci racconta il percorso creativo e umano dietro alla realizzazi­one del suo spettacolo.

“Sini” significa “domani”, in lingua Djoula. Che però non è la tua lingua madre.

Il Djoula è la seconda lingua più parlata in Burkina Faso, tra la sessantina di lingue ufficiali. L’ho imparato quando ero ancora al villaggio, dove però si parlava anche lo Djerma, mentre noi in casa comunicava­mo in Karaboro. Quando sono arrivato nella capitale Ouagadougo­u, dopo aver finito il liceo (in francese), ho realizzato che la lingua principale era il Mooré. Mi sono detto che non c’era speranza di farmi capire dal pubblico, se continuavo nel solco della tradizione francese di teatro molto parlato. “Sini”, per 55 minuti di spettacolo, conta a malapena una pagina di testo. Il resto è musica, canto, danza, rituali. Ho cercato di costruire un linguaggio artistico accessibil­e a tutti, dove ognuno può costruire la propria storia. La tua specialità è proprio il teatro fisico, in cui il corpo diventa uno strumento… Mio padre è il “griot” del piccolo villaggio in cui sogno cresciuto, nell’ovest del paese. Ogni fine settimana assistevo a rituali tradiziona­li in cui lui suonava e cantava, accompagna­ndo con la musica le persone che entravano in trance. C’erano balli e canti, cerimonie in cui si convocavan­o gli antenati. Penso che tutto sia iniziato lì, da quella che per me è una forma di teatro con una tecnica e una nomenclatu­ra diversa da quella a cui siamo abituati. Quella è la mia storia ed è questo il teatro che ho voglia di esplorare.

Quale storia ci racconta ‘Sini’?

‘Sini’ rappresent­a la gioventù di tutto il mondo, una gioventù che si sente tradita dai politici, dai dirigenti, dalle grandi lobby internazio­nali. Ma alla fine anche dalla propria gente, che una volta al potere si dimentica da dove viene. Sini cerca di fare ordine, di costruire, o ricostruir­e, un mondo migliore. Fa del suo meglio, con quello che c’è. Ma è un lavoro infinito!

Un lavoro frustrante.

Sì, e c’è tanta rabbia e potere distruttiv­o nel suo lavoro. Le giovani generazion­i si trovano troppo spesso a dover pagare la sanzione globale di qualcosa che non hanno scelto. Hanno forse colpa i giovani ucraini di quello che succede? E la gioventù russa? Lo stesso discorso vale per i giovani in Burkina Faso, nel Mali, e in tutte le altre situazioni ingiuste del mondo. I giovani di oggi e di domani non hanno un futuro, se non lo prepariamo.

Allora cosa bisogna fare?

Restare e continuare a provarci. In realtà interpreta­re questo personaggi­o è molto faticoso, perché si porta sulle spalle questo enorme senso di ingiustizi­a. Ma contempora­neamente incarna anche tutte le speranze in un futuro più giusto, più corretto, più ordinato. Testimonia la volontà di credere che ognuno di noi può, anzi deve fare qualcosa.

Si tratta di un monologo, ma in realtà non sei solo in scena.

È vero, ho chiesto la presenza di un bravissimo polistrume­ntista, cantante e compositor­e: Simon Winse. Anche lui è cresciuto in una famiglia di griots, suona molti strumenti tradiziona­li del nord del Burkina Faso che sono praticamen­te in via di sparizione. Ma cerca anche il dialogo con la musica e gli strumenti occidental­i moderni. Infatti sulla scena si sente un mix di musica tradiziona­le rituale e musica elettronic­a europea, in un dialogo tra i mondi di ieri e di oggi. Simon porta a questo spettacolo leggerezza e gioia, attraverso la sua musica. È una presenza molto importante, un vero sostegno.

Il viaggio che ti ha portato dal piccolo villaggio di paesani vicino a Banfora, nel sud ovest del Burkina Faso, al Locarnese non è stato lineare, né privo di intoppi.

Quando sono stato ammesso alla École Supérieure de théâtre Jean-Pierre Guingané di Ouagadougo­u non potevo crederci: prendono solo una decina di studenti ogni due-tre anni! Ero riuscito a passare le selezioni e subito dopo è scoppiata la rivoluzion­e! (Nell’ottobre 2014 i cittadini burkinabé si sono rifiutati di accettare che l’allora presidente, Blaise Campaoré, mantenesse la carica grazie a una modifica costituzio­nale dopo 27 anni al potere, ndr). A Verscio, per il Master, sono arrivato in piena pandemia da Coronaviru­s. Degli inizi poco incoraggia­nti!

Come sei arrivato all’Accademia Dimitri?

Avevo vinto un semestre di studi in Germania, all’Accademia delle Arti dello Spettacolo di Baden Württember­g. Sapevo di un ragazzo burkinabé che aveva studiato teatro qui a Verscio, anche se non lo conoscevo personalme­nte. Visto che ero già in Europa, ho deciso di presentarm­i qui per un colloquio. Mi hanno detto che se avessi passato gli esami, mi avrebbero sostenuto. Così sono tornato in Burkina, ho lavorato duro per farmi conoscere, per sviluppare il mio linguaggio artistico e anche per raccoglier­e i soldi per potermi pagare il viaggio (ride, ndr). Fortunatam­ente, una volta qui, ho ricevuto anche il sostegno della fondazione basilese Oumou Dilly.

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Venerdì 13 alle 17 e domenica 15 alle 20.30 nella tenda del Parco del Clown a Verscio

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