La fine dell’Urss ci dice dove siamo
Un nuovo videocorso illumina un passaggio cruciale per capire il presente e la guerra
La fine dell’Unione Sovietica non è ancora finita. Gli strascichi di quel collasso si fanno sentire ancora oggi, basti pensare al revanscismo imperialista che vediamo in azione in Ucraina: ‘gesta’ con le quali il presidente Vladimir Putin pretende (anche) di rispondere ai traumi di chi ha visto dissolversi un mondo. Ma cos’è successo esattamente prima, durante e dopo il 1991? Una nuova opportunità per capirci qualcosa viene dalla serie di videoepisodi che Luca Lovisolo – traduttore e ricercatore indipendente in diritto e relazioni internazionali, fine conoscitore del mondo russo – si accinge a pubblicare sul tema a partire da oggi. Ne abbiamo parlato con l’ideatore.
La fine dell’Urss ha anzitutto un volto: quello di Michail Gorbacev, il suo ultimo leader. Amato dall’Occidente, incarnazione di inedite volontà riformiste, divenne Segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica (Pcus) nel 1985. Doveva essere il salvatore della patria, ne fu il becchino. Al netto dei facili entusiasmi e delle altrettanto facili delusioni, che bilancio possiamo stilare del suo operato?
Gorbacev fu un riformatore coraggioso, capace di sfidare la gerontocrazia del Pcus. Cercò di sbloccare il sistema sovietico dopo i 18 anni di stagnazione dell’era Breznev, seguita dal breve interregno di Jurij Andropov e Konstantin Cernenko. Grande trascinatore, rese possibile smontare un sistema di potere violento e onnipervasivo. Arrivò però troppo tardi per trasformarlo senza distruggerlo: la sua azione – che rispondeva alle esigenze di una popolazione esausta e sottoposta a continue privazioni – non poteva più risolvere una crisi che era non solo economica, ma anche morale, visto che ormai la gente non credeva più nel disegno sovietico.
A lui si associano due termini divenuti altrettanti slogan: ‘perestrojka’ (ricostruzione) e ‘glasnost’ (trasparenza).
Il primo termine fu popolarizzato da Gorbacev, ma viene in realtà dalla pur brevissima era Andropov: fu lui a tentare una prima ricostruzione attraverso riforme economiche in senso mercantile, chiamando a sé quegli stessi consulenti che poi – dopo la parentesi ‘controriformista’ di Cernenko – si sarebbero ritrovati al fianco di Gorbacev. La glasnost invece aveva due aspetti: da una parte Gorbacev incoraggiò la comunicazione politica, inclusa la critica, che per la prima volta comparve perfino sulle pagine della ‘Pravda’; dall’altra cercò di avviare la lotta a una corruzione sempre più diffusa e coperta da connivenze e omertà. Il tutto in un Paese talmente allo sbando da non riuscire neppure a pagare le bollette telefoniche dei suoi ambasciatori o a calcolare quanto stesse effettivamente spendendo per la difesa.
Quali furono gli errori di Gorbacev?
Fermo restando che la situazione era già ampiamente compromessa, un primo grave errore fu quello di puntare sulla modernizzazione dell’industria pesante, nell’illusione che ciò avrebbe rilanciato a cascata tutta l’economia. Lo sbaglio – già commesso da Nikita Kruscev tra gli anni Cinquanta e Sessanta e dovuto alla scarsa competenza economica di Gorbacev, che lo portava a dipendere dai suoi consiglieri – fu quello di non puntare invece sul rilancio dei settori legati ai beni di prima necessità, sui consumi. Il secondo grave errore riguarda le privatizzazioni, effettuate senza un solido criterio: si distribuirono alla popolazione ‘cedole’ azionistiche delle quali non sapevano che farsi, prontamente rastrellate per pochi soldi da quella che sarebbe così divenuta la prima generazione di oligarchi. Alla fine, i bisogni e le aspettative della popolazione non furono soddisfatti.
Come andò a finire?
Col passare degli anni – mentre i cittadini continuavano ad affrontare enormi difficoltà e si sperimentava questa sorta di privatizzazione senza mercato – Gorbacev divenne sempre meno popolare in patria. Cresceva invece la popolarità di Boris Eltsin, precedentemente allontanato proprio dal Cremlino, che nelle prime elezioni semilibere – indette nel 1989 dallo stesso Gorbacev – si ritrovò eletto al Congresso dei deputati del popolo e poi passò a capo del Soviet supremo russo. Quando nell’agosto 1991 l’ala intransigente del Pcus tentò il colpo di Stato a Mosca, fu proprio Eltsin, ormai popolarissimo, a prendere le redini per sventarlo: è celebre la sua immagine mentre arringa il popolo dalla torretta di un carro armato, mentre le televisioni trasmettevano la replica del ‘Lago dei cigni’, come si faceva quando morivano i leader. Gorbacev si trovò sempre più isolato, mentre le altre repubbliche – rimaste senza gas e petrolio come Ucraina o Bielorussia, o sempre più attraversate da divisioni etniche e pulsioni indipendentiste – cominciavano a smarcarsi da Mosca. Il 25 dicembre Gorbacev annuncerà la fine della sua presidenza e dell’Unione Sovietica, che cesserà di esistere anche giuridicamente il giorno dopo.
Eltsin sarà il suo successore. L’Occidente ne serba un ricordo assai meno lusinghiero: quello di un ubriacone sotto il quale la Russia sprofondò nel caos.
In verità, chi ha lavorato con lui lo ricorda come un uomo sincero, generoso, corretto, che credeva nella realizzazione di un Paese democratico. Si ritrovò a capo della Russia mentre le altre repubbliche ormai ex sovietiche andavano per la loro strada – la Comunità degli Stati indipendenti che sostituì l’Urss non era più uno Stato unitario, ma solo una specie di zona di libero scambio – dopo il fallimento di un sistema politico ed economico imposto per oltre settant’anni, nel quale non si trovavano neppure le più elementari competenze necessarie per sviluppare un’economia di mercato. Perché a differenza che in Polonia, nei Paesi Baltici o in Cecoslovacchia, in Russia quel tipo di economia non si era mai visto.
La crisi post-sovietica – economia al collasso, rublo divenuto carta straccia, risparmi privati annichiliti, violenza per le strade – è spesso imputata anche all’Occidente, in particolare agli Usa: le famigerate ‘ricette del Fondo monetario internazionale’ avrebbero avuto una responsabilità importante. È d’accordo?
Ancora una volta, bisogna capire che si stava tentando qualcosa di mai visto prima: la transizione dal socialismo reale all’economia di mercato. Errori ve ne furono, penso ad esempio al maxiprestito del Fondo che finì bruciato nel tentativo di sostenere il rublo, invece che in investimenti produttivi. Ma non sarebbe stato facile fare di meglio, vista la situazione disperata.
Col passare degli anni, però, Eltsin apparve sempre più smarrito, incapace di qualsiasi mossa, succube degli oligarchi e delle varie consorterie che a Mosca spuntavano come funghi. Cosa stava succedendo?
Sempre più malato, il presidente fu ricandidato per un secondo mandato perché si pensò che un candidato alternativo – ad esempio Viktor Cernomyrdin, molto meno popolare di lui – sarebbe stato sconfitto da Gennadij Zjuganov, ancora oggi leader del vecchio Partito comunista. Per non rischiare un ritorno indietro, si decise di puntare ancora su Eltsin. Oltre agli oligarchi, però, gli sfuggirono di mano anche i conflitti etnici, il terrorismo e la guerra in Cecenia. Alla fine, stanco e malato, il 31 dicembre del 1999 lasciò il potere al suo ultimo primo ministro Vladimir Putin, la cui ascesa era stata verosimilmente sospinta dal Kgb del quale era capo.
Putin si dimostrerà l’uomo d’ordine capace di risolvere la crisi?
Personaggio senza scrupoli, Putin ha risolto la crisi cecena nello stesso modo in cui sta cercando di vincere la guerra in Donbass: radendo al suolo tutto. Nel frattempo è riuscito ad avvantaggiarsi del forte aumento di prezzi ed esportazioni delle materie prime, che ha permesso un effettivo miglioramento degli standard di vita. Non bisogna però illudersi: la Russia continua a dipendere da quelle stesse materie prime, resta succube degli oligarchi e non riesce a sviluppare industria e servizi in maniera neppure lontanamente adeguata agli standard internazionali, tanto è vero che non riesce nemmeno a costruire automobili abbastanza sicure da poter essere vendute in Europa. Permane anche la grave differenza di qualità di vita tra città e campagne, che affliggeva già l’Unione Sovietica. La crisi russa, insomma, è lungi dall’essere risolta.
L’uomo forte, però, è anche la risposta allo shock profondissimo di un Paese rimasto orfano d’un sistema quasi religioso, costretto a vivere – per dirla col titolo del capolavoro di Svetlana Aleksevic – un “tempo di seconda mano”.
Come mai, dopo trent’anni, il lutto per l’Urss non è ancora stato elaborato?
Bisogna capire anzitutto una cosa: quella che per noi è stata la fine del comunismo, per i russi è stata la fine di un’intera idea di Stato, di una presenza che bene o male ti assisteva dalla culla alla bara, della promessa di un futuro diverso, ma anche di un corsetto che teneva in piedi la società di quindici repubbliche da tre generazioni. In quel mondo c’erano dei valori – talora discutibili quanto si vuole, quando si pensa che finivano per negare la proprietà privata e la libertà di parola –, ma tali da fornire coesione, ordine, certezze. Quello che ne seguì nell’immediato, oltre che un disordinato periodo di collasso economico, fu la perdita di tutti i riferimenti. Si perse anche quel senso di solidarietà diffusa che era stato consolidato dalle privazioni e dalla necessità di proteggersi dall’oppressione. Ci si trovò invece scaraventati in un sistema di competizione tra individui, cosa normale per noi, ma mai vissuta prima in Russia. A risolvere quel trauma non è bastato neppure un cambio generazionale, tanto che perfino alcuni ventenni o trentenni – spesso infatuati da nonni che ricordano con nostalgia “quando c’era l’Urss” – rimpiangono un mondo in cui non hanno neppure mai vissuto.
DAL FRONTE
Le truppe russe avanzano e torturano
Le aree residenziali di Severodonetsk sono “totalmente” sotto il controllo russo. Dopo giorni di furiosi combattimenti, la città più a est in mani ucraine sembra definitivamente caduta. E con il suo centro urbano, il 97% della regione di Lugansk è passato nelle mani di Mosca. A rivendicarne la presa è direttamente il ministro della Difesa russo Sergej Shoigu. Le forze ucraine, comunque, resistono ancora nella zona industriale e negli insediamenti circostanti. Ultimo baluardo di una battaglia impari – gli assedianti “sono molti e sono più forti”, ha ammesso il presidente ucraino Volodymyr Zelensky – resta l’enorme fabbrica chimica Azot, in una parabola sempre più simile a quella dell’acciaieria Azovstal di Mariupol. Nei bunker dell’impianto restano nascosti circa 800 civili, 600 abitanti e 200 lavoratori rimasti per mettere al sicuro lo stabilimento e disinnescare potenziali disastri ambientali. Nel frattempo circa 600 residenti – principalmente giornalisti e attivisti per i diritti umani – sarebbero detenuti dai soldati russi e torturati negli scantinati di Cherson, stando a quanto riporta l’esecutivo ucraino.
Labirinti diplomatici
Intanto Zelensky chiede che anche la Cina “usi la sua influenza sulla Russia per porre fine a questa guerra”: il presidente spera di mobilitare proprio il partner più importante di Mosca, che, pur mantenendo la sua linea di non interferenza, ha espresso preoccupazione per gli effetti destabilizzanti del conflitto sull’economia globale. “Quanto accade può portare alla Terza guerra mondiale, e questo dovrebbe essere una priorità per tutti i leader”, ha avvertito Zelensky in un’intervista al ‘Financial Times’. Per arrivare a una tregua ha ribadito di essere pronto a sedersi in qualsiasi momento al tavolo con Vladimir Putin, perché “non c’è nessun altro con cui parlare” a Mosca, a condizione che siano colloqui davvero mirati a porre fine alle ostilità. Continuano invece le punzecchiature con la Francia. La Russia, ha detto Zelensky evocando ancora una volta le parole di Emmanuel Macron sull’importanza di “non umiliare” Mosca nella ricerca della pace, “non ci sta umiliando, ci sta uccidendo”.