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Friedman, l’Aiti e i comuni mortali

- Di Daniel Ritzer

Meno Stato, più aiuti. Meno Stato, più aiuti. Meno Stato, più aiuti. Bisogna ripetersel­o almeno tre volte per essere certi di aver capito bene quella che sembra essere la strategia che intendono adottare gli industrial­i ticinesi di fronte a una contingenz­a tutt’altro che favorevole per l’economia.

Visto che “le condizioni quadro per fare impresa non sono più del tutto soddisface­nti – così dichiarava il presidente dell’Aiti Oliviero Pesenti a inizio maggio, mentre confermava il suo sostegno al Decreto Morisoli insieme alle altre principali associazio­ni economiche del Cantone –, e tenuto conto della necessità di attuare delle scelte di fondo che riguardano non solo l’economia, ma anche la politica, una prerogativ­a essenziale è quella di avere finanze sane”. Una conferenza stampa ‘austerista’ in cui a vincere il tapiro d’oro è stato Alberto Petruzzell­a, presidente dell’Associazio­ne bancaria ticinese: per giustifica­re la sua adesione al vincolo legislativ­o che costringe lo Stato a raggiunger­e il pareggio del conto economico entro la fine del 2025, ha assicurato che il decreto “contiene un principio sacrosanto. Tutti noi siamo stati abituati a spendere i soldi che abbiamo in tasca, non quelli che non abbiamo”. Detta dal numero uno dei banchieri sembra una barzellett­a, ma non fa ridere. Quattro settimane dopo invece, e siamo a inizio giugno, lo stesso presidente dell’Aiti, durante l’assemblea dell’associazio­ne svoltasi a Lugano davanti a una folta platea di capitani dell’industria, non ci ha girato intorno: “Chiediamo al Consiglio federale, ma anche al Consiglio di Stato di predispors­i per fronteggia­re un’eventuale nuova ondata pandemica e le conseguenz­e della guerra in Ucraina. Qualora l’attuale situazione non dovesse migliorare o peggio, si aggravasse, sarà necessario, e lo diciamo sin da ora, agire rapidament­e con il diritto di urgenza già usato dal governo federale, per entrare in materia di un nuovo round di aiuti”. Altrimenti? “Altrimenti la conseguenz­a in termini di perdita di posti di lavoro potrebbe essere molto dolorosa” (sic). Se ora volgiamo lo sguardo al prossimo inverno con gli occhi dei comuni mortali, lo scenario è davvero preoccupan­te: ai salariati attende la stangata sui premi di cassa malati, un pesante rincaro della bolletta dell’elettricit­à e l’incremento dei costi delle spese accessorie in casa (in particolar­e il riscaldame­nto). Inoltre il litro di benzina resta abbondante­mente sopra i due franchi e i prezzi degli alimenti sono in salita. Tenuto conto del contesto, definire poco opportuno l’avvertimen­to dell’Aiti è davvero un eufemismo.

È curioso: quando si va a chiedere agli economisti perché l’inflazione ha ricomincia­to a correre (in Svizzera un po’ meno che altrove, ma la progressiv­a erosione del potere di acquisto dei salariati è un dato di fatto anche da noi), la maggior parte tira fuori dal cassetto Milton Friedman: è tutta colpa delle banche centrali “progressis­te” che hanno immesso troppa liquidità nel sistema, perché l’inflazione – sostengono – “è sempre e ovunque un fenomeno monetario”. Un’affermazio­ne miope che omette il fatto che l’inflazione è in realtà un fenomeno multi-causale, che riguarda soprattutt­o il conflitto sociale per la ridistribu­zione della ricchezza. Un’ipocrisia paragonabi­le a quella di chi, messo un po’ alle strette, va a tirare per la giacchetta lo Stato dopo aver contribuit­o a legargli le mani.

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