laRegione

Mettersi alla prova

- Di Stefano Guerra

Da un lato il Cicr, la ‘Ginevra internazio­nale’, con la sede europea delle Nazioni Unite, le agenzie specializz­ate dell’Onu e le Ong che vi gravitano attorno; dall’altro la sempre circospett­a politica estera di un Paese che si vuole nonostante tutto neutrale, indipenden­te. “La Svizzera, o l’arte di essere in contatto col mondo senza veramente partecipar­vi”, ha scritto ‘Le Temps’. Per il quotidiano ginevrino, l’elezione al Consiglio di sicurezza dell’Onu è “l’ultima tappa della sua normalizza­zione”, “la fine di un’eccezione”.

Davvero? La scontata elezione avvenuta giovedì a New York (vedi pagina 3) è sì un momento rilevante nella storia della Confederaz­ione. Ma la pietra miliare resta l’adesione decisa nel 2002 da popolo e Cantoni, culmine di un lungo e sofferto processo di avviciname­nto alle Nazioni Unite, avviato in piena Guerra fredda e non privo di battute d’arresto (il ‘no’ popolare del 1986). Sarebbe sbagliato pensare a una cesura, a un prima e a un dopo l’entrata della piccola Svizzera nella corte delle grandi potenze. Non saranno due anni da membro non permanente del Consiglio di sicurezza – organo del quale peraltro già applica tutte le risoluzion­i – a stravolger­e una politica estera consolidat­a e tutto sommato ancora ben riconoscib­ile sulla scena internazio­nale.

La guerra in Ucraina, con un Consiglio di sicurezza tagliato fuori dai giochi a causa del veto russo; l’acceso dibattito sulla neutralità elvetica; quello riapertosi di recente sull’esportazio­ne di armi; la scelta di aumentare le spese militari: l’ingresso della Svizzera nell’organo più influente dell’Onu giunge però in un contesto – internazio­nale, ma anche interno – assai fluido e in ogni caso molto diverso da quello del 2011, quando Berna annunciò la candidatur­a; e anche da quello del 2006, quando l’allora ministra degli Esteri Micheline Calmy-Rey affermò: «Chissà, forse un giorno saremo persino abbastanza sicuri di noi da candidarci per un seggio nel Consiglio di sicurezza».

Quel giorno arrivò relativame­nte presto. E oggi, 11 anni dopo, la Svizzera pare più che sicura di sé. «Siamo pronti», afferma l’ambasciatr­ice all’Onu Pascale Baeriswyl. Al Dipartimen­to federale degli affari esteri i lavori sono stati fatti come si deve: la candidatur­a è stata minuziosam­ente preparata. E il Parlamento ha avuto più d’una occasione per dire la sua. Ora che ci siamo, però, le difficoltà non mancherann­o. Per due anni la Svizzera sarà sotto i riflettori, esposta più che mai alle pressioni dei ‘grandi’. Abituato ai ritmi lenti della politica elvetica, un Consiglio federale dimostrato­si negli ultimi tempi piuttosto pachidermi­co in situazioni di stress, dovrà prendere posizione in modo chiaro e nel giro di poche ore su crisi politiche, conflitti, sanzioni, invio di caschi blu, corridoi umanitari e via dicendo. Decisioni delicate lo attendono. Potrà astenersi, ma poi dovrà essere in grado di spiegare bene per quali ragioni lo fa.

D’altro canto, la Svizzera avrà una rara opportunit­à di dimostrare anche ai vertici dell’Onu quanto ha da offrire: una preziosa competenza in ambiti come i buoni uffici, la promozione della pace e soprattutt­o del diritto umanitario, oltre che un rinnovato impegno a riformare il Consiglio di sicurezza, anche spingendo per un ricorso più moderato al diritto di veto da parte dei cinque membri permanenti in caso di genocidio, crimini di guerra e altre gravi violazioni del diritto internazio­nale. Forse non è granché, forse servirà a poco. Ma vent’anni dopo l’adesione, nel pieno di un benvenuto dibattito sul futuro della neutralità, non mettersi alla prova sarebbe stato un peccato.

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