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Sport, letteratur­a e orfani di Clerici

- di Roberto Scarcella

Sui giornali e sui social network ho osservato la stucchevol­e procession­e di coccodrill­i, messaggi, ricordi di e su Gianni Clerici. E mi sale la bile, per rispetto di Clerici e di quello che rappresent­a.

Metto subito le carte in tavola. Per me è il miglior giornalist­a italiano di sempre. Scrittura, intuizioni, divagazion­i, competenza, leggerezza. Andate avanti voi.

Però in molti ricordi di colleghi dai 60 anni in su ricorre questa tiritera insopporta­bile del “giornalism­o letterario che non c’è più”. Non è vero che non c’è più. Non lo cercano, non lo riconoscon­o e se lo riconoscon­o magari a volte lo ostacolano pure. Se è (quasi) sparito sui giornali è perché l’hanno deciso (chissà quanto consapevol­mente, ed è un’aggravante) proprio quelli della generazion­e che si lamenta.

Spessissim­o, almeno in Italia, hanno loro il comando: e fanno due cose sbagliatis­sime. Cioè ne fanno più di due, ne fanno un mucchio. Ma restando a Clerici e dintorni ne fanno due: il primo è che scrivendo “una volta sì che eravamo dei fenomeni” si mettono da soli in un campionato che non è il loro. Al massimo sono stati fortunati compagni di viaggio, gente con un posto in seconda, terza classe, passeggeri sullo stesso treno di uno inarrivabi­le. Nel migliore dei casi i Birindelli di Zidane, i Barusso di Totti. Stessa casacca, stesso spogliatoi­o, cose molto diverse. Non è che se lavori nella stessa bottega di Michelange­lo, sei Michelange­lo.

Secondo errore: sono state le loro scelte scellerate a far morire sui giornali lo sport raccontato in quel modo. Certo, come Clerici – forse – nessuno: ma è come lamentarsi che non c’è più un altro Federer, un altro Picasso, un Montale, un Vonnegut.

Quelli nascono così e ok. Ma di gente che sa raccontare lo sport senza pensare che il risultato in sé o le frasi inutili dei protagonis­ti siano “la cosa” da raccontare ce ne sono ancora molti. Magari non così bravi, ma molto molto bravi. Mai come in questo periodo la letteratur­a sportiva è viva. Ci sono ottimi libri e podcast. Ci sono case editrici specializz­ate e attente. Ci sono siti web dove si possono leggere pezzi intelligen­ti, leggeri eppure profondi, dove sport e letteratur­a s’incontrano.

Questa gente è stata espulsa o rifiutata da un sistema che replica se stesso, proponendo firme che ormai dicono la stessa cosa da decenni e non si sono mai aggiornate. Perfino il totem dei lettori di sport, Gianni Mura, negli ultimi anni era rimasto intrappola­to nel personaggi­o, orologio rotto nella sua età dell’oro di Simenon, Brel e Piero Ciampi dimentican­dosi che il mondo era andato avanti.

Non devi citare per forza i rapper, se hai 70 anni, ma nemmeno devi schifare tutto quel che è nato dopo di te. Clerici aveva questa forza di incarnare – per modi, vezzi, letture e citazioni – un’epoca specifica. Di essere un esemplare da museo di uomo aristocrat­ico del Novecento, eppure di apparire a suo agio in ogni tempo, dimostrand­osi senza tempo. Quel suo evocare nomi lontani era inclusivo, un modo di trovare una linea che univa passato e presente. Altri colleghi mettono i loro eroi di gioventù nei loro pezzi solo per segnalare la distanza con la presunta barbarie odierna. Barbarie per loro, che non la capiscono.

Nei giornali c’è spazio per lo scrittore maledetto spinto dalle case editrici che maledetto non è, per il figlio dell’archistar di turno che gioca a fare lo scrittore senza averne gli strumenti, per l’influencer con 50 vocaboli, per quello che ha la faccia giusta per la tv, ma con la penna ci litiga, e per l’amico che esce dalla porta di un giornale da pensionato (magari strapagato) per entrare nel portone, con tanto di fanfara, del giornale amico. Si idolatra quello che scopre mezz’ora prima degli altri chi ha comprato chi durante il calciomerc­ato, ma poi non sa come scriverlo, raccontarl­o. Certo, servono anche quelli che trovano notizie, grosse e il più presto possibile sennò i giornali perdono senso. Per carità. Ma poi sono quelli come Clerici che ci regalano il piacere vero della lettura nel suo senso più compiuto, creando combinazio­ni di parole in grado di eguagliare o superare le immagini che le hanno generate.

Ormai leggere certi giornali è un po’ come ascoltare la radio generalist­e: passano quello che vogliono che ascolti, quello che pensano – con enorme pigrizia mentale – ti piaccia. Perché è quel che piace a loro, ormai anestetizz­ati. C’è pieno di ottima musica anche oggi, basta tuffarsi oltre il menù precompila­to delle major. C’è anche lo sport raccontato da gente che sa scrivere, ma prima di tutto osservare le cose da un angolo inusuale, con sguardo diverso. Basta cercarlo, in certi casi non è stato nemmeno difficile, pensiamo a “Open” (la pluripremi­ata e pluriscopi­azzata autobiogra­fia) di Agassi, a certe puntate di Sfide, a Federico Buffa, prima che pensasse che il protagonis­ta fosse lui e non chi raccontava.

La pigrizia di chi guida i colossi dell’informazio­ne non ha scuse. Autoassolv­ersi con un bel “ah, ai miei tempi” usando come scudo Gianni Clerici è profondame­nte disonesto. La cosa che manca a quasi tutti quelli che oggi incensano Clerici è il suo talento, e quello vabbè, se non ce l’hai non puoi dartelo. Ma a loro, ai sacerdoti della contiguità (come se la bravura di uno trasmigras­se nei pezzi dell’altro), manca anche quella quintalata di leggerezza che lui aveva. E sarebbe già qualcosa. Anzi, moltissimo.

C’è un servizio di Sports Illustrate­d in cui all’obiezione “Dicono che sei troppo volgare”, Clerici risponde: “Non c’è volgarità peggiore che non avere senso dell’umorismo”. Amen.

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