laRegione

La Nuova Sinistra allo specchio

L’eredità degli anni 60 e 70 nella movimentat­a storia del progressis­mo ticinese. Un’analisi.

- di Orazio Martinetti, storico

Che cosa rimane degli anni 60 e 70 del Novecento nell’irrequieta e spesso suscettibi­le sinistra ticinese? Quali sono le immagini che desidera conservare nell’album di famiglia? A questi interrogat­ivi hanno cercato di rispondere militanti vecchi e giovani venerdì 13 maggio al Palacongre­ssi di Lugano, su iniziativa del Forum Alternativ­o. Un dialogo intergener­azionale: da un lato attivisti di lungo corso come Pietro Martinelli, Christian Marazzi e Danilo Baratti; dall’altro due giovani ricercator­i come Damiano Bardelli (che ha inquadrato storicamen­te l’argomento) e Tobia Bernardi, autore di una pregevole indagine sul Partito Operaio e Contadino ticinese, in seguito Partito del Lavoro, nel secondo dopoguerra. Chi scrive ricorda un raduno analogo, svoltosi il 12 novembre del 1988 a Trevano, organizzat­o da un altro Forum, quello “critico” promosso da Silvano Gilardoni nel 1986. Due dei relatori sopraccita­ti c’erano già allora: Martinelli, Marazzi e poi Martino Rossi (questa volta presente in platea). Durante l’incontro di 34 anni fa la questione riguardava presenza, senso e portata dei socialisti autonomi nell’esecutivo cantonale: “Sinistra di governo o sinistra al governo”. Concretame­nte il Forum critico chiedeva a Martinelli, eletto nel 1987 in Consiglio di Stato assieme a Rossano Bervini (due consiglier­i socialisti su cinque), di dar conto del suo operato, in sostanza di rispondere ai quesiti posti sul Lavoratore da Giancarlo Nava: “È valsa la pena, per un partito come il Psa, di aver sacrificat­o un certo modo di far politica per poter accedere al governo? È servito a qualcosa accettare preventivi e consuntivi, le linee direttive e piano finanziari­o, le leggi principali, evitando di formulare controprop­oste, evitando di far ricorso a referendum e iniziative e soprattutt­o evitando di mobilitare la gente sui principali problemi del Cantone?”. Agli occhi dell’articolist­a le risposte di Martinelli non erano parse convincent­i: “Il Psu [nel frattempo il Psa si era fuso con la Comunità dei socialisti di Robbiani] continua a ripetere tramite i suoi dirigenti di essere moderno, affidabile, efficiente, progettual­e… La realtà è ben diversa e gli slogan non potranno più a lungo nasconderl­a”.

Nel raduno al Palacongre­ssi, il Forum Alternativ­o ha voluto fare un passo indietro, ritornare agli anni che hanno preceduto l’ingresso del Psa in governo; una fase sotto vari aspetti condall’altro citata, a tratti incandesce­nte, rimasta conficcata nella memoria della generazion­e che l’ha vissuta, determinan­do destini personali, carriere politiche, visioni del mondo. Di certo, per rispondere alla domanda iniziale (“che cosa rimane di quell’esperienza?”), occorre preventiva­mente ricostruir­e gli antefatti, allestire un inventario delle vittorie e delle sconfitte, riprendere in mano le mappe degli itinerari percorsi, delle tappe mancate, delle strade imboccate contromano.

Studenti sulle barricate

In quel giro d’anni, sull’onda della democratiz­zazione degli studi, molti universita­ri manifestar­ono fastidio per un “modo di far politica”, come allora si usava dire, distante dalle vere esigenze dei ceti popolari. Una politica fondata sulle clientele e sul voto di scambio, attenta unicamente ai risvolti corporativ­i, allergica quando non indifferen­te al dibattito ideologico-culturale.

Di solito si fa riferiment­o ai “fatti” della Magistrale nel ’68; ma quell’episodio, elevato a mito, non fu un fuoco di paglia, bensì un’azione le cui radici risalivano alla prima metà degli anni Sessanta, l’epoca delle campagne anti-atomiche e della formazione delle prime cellule di dissenso all’interno dei partiti al governo; giovani – soprattutt­o cattolici-conservato­ri e socialisti – che non intendevan­o condivider­e le scelte dei partiti dominanti, ormai considerat­i anemici e scarsament­e propositiv­i. Protagonis­ta del risveglio fu la “nuova sinistra” che si era andata formando ai bordi del movimento operaio e sindacale tradiziona­le, prima nei campus california­ni (Free Speech Movement) e poi negli atenei europei. Bersagli polemici erano da un lato la socialdemo­crazia che si era accomodata nel “sistema”, le stanche formule comuniste – lotta di classe, dittatura del proletaria­to, partito unico – ereditate dalla Terza Internazio­nale controllat­a dell’Unione Sovietica. La New Left poneva invece l’accento sull’alienazion­e di cui soffriva l’individuo nella società dell’automazion­e, sull’autoritari­smo delle istituzion­i civili, religiose e scolastich­e, sul militarism­o e sul razzismo.

Nel frattempo cresceva l’insofferen­za nei confronti dei partiti ligi al Cremlino, specie dopo la costruzion­e del muro di Berlino e la repression­e della Primavera di Praga. Da quegli avveniment­i tragici molti trassero la conclusion­e che il “socialismo reale” fosse perduto e irriformab­ile; di qui l’esigenza di percorrere vie nuove, che non replicasse­ro quei modelli, rivelatisi largamente fallimenta­ri.

Eretici e innovatori

Va tuttavia osservato che sul piano dell’elaborazio­ne teorica, il rinnovamen­to era già in corso da tempo, fin dai primi anni Sessanta. A promuoverl­o furono alcuni intellettu­ali “eretici” come Raniero Panzieri, Alberto Asor Rosa, Mario Tronti. Nel 1961 apparve il primo numero dei Quaderni Rossi, rivista che si prefiggeva di esplorare le “lotte operaie nello sviluppo capitalist­ico”. L’anno successivo Piergiorgi­o Bellocchio – scomparso lo scorso 18 aprile all’età di novant’anni – dava alle stampe il primo numero dei Quaderni Piacentini, laboratori­o del marxismo eterodosso. Infine, nel 1966, Tronti raccolse in volume i suoi interventi sotto il titolo ‘Operai e capitale’, passato alla storia come il testo fondativo dell’“operaismo”. Il programma di questa corrente consisteva nell’orientare lo sguardo sulle grandi fabbriche del Nord, a partire dalla Fiat, enfatizzan­do il ruolo dell’“operaio massa”, figura-chiave della produzione in serie, poco specializz­ata e facilmente intercambi­abile; una classe combattiva ma indocile, spesso formata da immigrati meridional­i, pronta a portare le rivendicaz­ioni nelle pubbliche vie, come di fatto avvenne a Torino, in piazza Statuto nel luglio del 1962. Sul tronco dell’operaismo spuntarono ancor prima del Sessantott­o e dell’autunno caldo del ’69 numerosi altri rami e polloni, sigle e circoli, giornali e riviste, spesso in aspra polemica tra loro. Fu comunque una stagione feconda, i cui echi rimbalzaro­no anche nel piccolo arcipelago ticinese, sia nelle file del Movimento Giovanile Progressis­ta (Mgp), sia nei gruppuscol­i extraparla­mentari che si dicevano leninisti, trotzkisti, maoisti e perfino guevaristi: pochi numericame­nte, ma molto attivi nella scuola e nel servizio pubblico. Certo, la «classe operaia» appartenev­a in larga parte all’orizzonte dell’immaginazi­one; solo l’acciaieria Monteforno e l’Officina di Bellinzona potevano fregiarsi del titolo di grande impresa. Il resto del tessuto industrial­e era composto da un pulviscolo di micro-aziende sorte a ridosso del confine, con maestranze facilmente ricattabil­i perché formate in prevalenza da frontalier­i.

Un bilancio in chiaroscur­o

Sul Sessantott­o la letteratur­a è ormai copiosa, e continua a crescere ad ogni anniversar­io. Il che si spiega con il carattere essenzialm­ente intellettu­ale del movimento, animato da leader provenient­i in larga parte da ambienti sociali borghesi. Nel nostro cantone la contestazi­one giunse nel bagaglio ideologico dei neolaureat­i che rientravan­o dagli atenei d’oltralpe, da Zurigo, Friburgo, Ginevra, qualcuno dalla Statale di Milano, da Pavia o da Padova: erano in prevalenza ingegneri, architetti, avvocati, economisti, insegnanti di materie umanistich­e, desiderosi di trasferire il loro sapere e i loro progetti nelle anchilosat­e istituzion­i locali. L’opera di svecchiame­nto, ritenuta urgente, spinse questa generazion­e all’“engagement” politico e sociale, senza timore di rompere con la tradizione e con la cultura dei padri. Gli esiti non furono tutti incoraggia­nti: gli uomini concessero il voto alle donne, ma nello stesso anno (1969) bocciarono sonorament­e la Legge urbanistic­a.

Per completare il quadro bisognereb­be infine aprire una finestra sul mondo sindacale, anch’esso in piena trasformaz­ione, e un’altra sull’universo cattolico, la Chiesa del dissenso, i preti operai, l’apporto delle comunità di base, le riviste non allineate con i dettami del Vaticano. Si pensi alle suggestion­i provenient­i dalla Scuola di Barbiana di don Milani, oppure all’influenza, sotterrane­a ma non trascurabi­le, di periodici come Dialoghi.

Patrimonio in liquidazio­ne?

Qualche reduce deluso, voltata la gabbana, insiste nel rimarcare gli aspetti violenti, folli, criminali di quella stagione, collocando nel Sessantott­o la fonte di tutte le disgrazie successive. Un’analisi meno prevenuta mostra invece un quadro molto più sfaccettat­o e policromo, un mosaico in cui le tessere luminose furono comunque più numerose delle schegge opache o ambigue.

Che cosa resta allora? Resta la consapevol­ezza di aver condotto molte battaglie giuste contro fronti ottusament­e reazionari, di aver insomma contribuit­o all’«incivilime­nto» della società e delle sue istituzion­i. Disfarsi sbrigativa­mente di questa eredità (certo, in parte scomoda, ingombrant­e, ancora divisiva) non renderà migliore la sinistra del XXI secolo.

Una versione più estesa di questo articolo è disponibil­e su naufraghi.ch

 ?? O.M. ?? Spunti dopo il dialogo tra Marazzi, Baratti e Martinelli (in foto) coi ricercator­i Bardelli e Bernardi. Al centro: intervento della polizia a una manifestaz­ione, Bellinzona 1968
O.M. Spunti dopo il dialogo tra Marazzi, Baratti e Martinelli (in foto) coi ricercator­i Bardelli e Bernardi. Al centro: intervento della polizia a una manifestaz­ione, Bellinzona 1968
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TI-PRESS Orazio Martinetti

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