‘So’ italiano, embè? Non vi sta bene?’
Questa è la storia di un triplice ‘Campioni del Mondo!’ che ha cambiato i rapporti tra svizzeri e immigrati italiani (lo dicono gli storici).
“Pensiamo all’importanza della vittoria della squadra del Sudafrica dei Campionati del mondo di rugby del 1995, messa in scena dal film Invictus di Clint Eastwood. In questo caso la vittoria si trasforma nel simbolo di una possibile convivenza e cooperazione tra cittadini neri e bianchi”.
Dire che nel 1982 le dinamiche relazionali tra svizzeri ed emigrati italiani fossero assimilabili all’apartheid magari è troppo, ma da queste parti nessuno si scandalizza più ricordando lo statuto dello ‘stagionale’, l’iniziativa Schwarzenbach e le altre crociate xenofobe lanciate dalla destra nazionale tra i Cinquanta e i Settanta. E nemmeno il ‘NO’ plebiscitario all’iniziativa opposta, ‘Essere solidali’, affossata nel 1981 per troppa solidarietà. Il Sudafrica del rugby e il film di Eastwood sono solo un paragone sportivo-cinematografico, speso però con coscienza dagli autori di “Mundial di Spagna 1982: come l’Italia vinse anche in Svizzera” (in Studi emigrazione, 2016, vol. LII, no. 203; Università di Ginevra), saggio di Sandro Cattacin e Irène Pellegrini che nel 2016 analizzava i festeggiamenti in Svizzera per la vittoria dell’Italia ai Mondiali di Spagna, “evento chiave e acceleratore di un riconoscimento del ruolo, dell’importanza, ma anche del contributo sociale, economico e culturale degli italiani e delle italiane in Svizzera”.
Nelle parole della stampa
Premesse le premesse, e cioè la contestualizzazione della storia della xenofobia in Svizzera e gli effetti sulla comunità italiana, prima di chiudere con Mandela i due autori spiluccano interessanti estratti dalla stampa elvetica nell’atto di celebrare l’impresa, rimarcando l’inedito uso di termini italofoni da parte del non più edito FAN L’Express di Neuchâtel (‘Bravo’, ‘Fantastica’, ‘Moderno’, un ossimoro, quest’ultimo, per gli svizzeri del tempo se applicato all’Italia), La Gazette de Lausanne che si stupisce che nell’allora soporifero dopocena losannese vi fosse stata una festa e che gli italiani non avessero devastato la città, con tanto di autocritica: “Certo, ci sono gli svizzeri ‘scontrosi’ che magari da ipocriti passeranno le loro vacanze in Italia”, e un conclusivo: “Grazie agli italiani per averci dato una lezione”. Più stereotipizzato il Journal de Genève – “Si vendono bene e sono capaci di non cambiare i loro modi (…) utilizzando questa strategia di sottomettersi agli altri per poi intrigarli meglio” – che si può anche leggere come invito agli autoctoni a non sottovalutare il valore di un popolo che non ama mettersi in mostra e a smettere di chieder loro di rinunciare alla propria identità. L’NZZ, infine, nel titolare la festa scrive ‘Zurigo’ al posto di ‘Zürich’, non mancando di numerare le chiamate telefoniche per denunciare clacson e schiamazzi, giustificando il fatto che “gran parte degli zurighesi” si era fatta contagiare dai festeggiamenti. Evitando che tutto questo possa venir frainteso come un consolatorio ‘volemosebbene’, “la xenofobia non diminuì – conclude Cattacin – ma si trasferì su altri gruppi stranieri”, in nome di quella legge non scritta che vale in ogni Paese del mondo, secondo la quale in un pianeta più o meno tondo, una volta fissato il verso, c’è sempre qualcuno più a sud di noi.