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Tequila & fonduta

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Se parli di Milano a un romano, stai certo che prima o poi ti dirà che “la cosa più bella di Milano è il treno per Roma”. A Roma, quartiere alla moda di Città del Messico, penso farebbero la stessa battuta su Toluca se solo ci fosse un treno a collegarle.

Ci sarà, prima o poi, dicono. Anzi, avrebbe già dovuto esserci nel 2017, nel 2018, nel 2020 e anche quest’anno. Sarà pronto l’anno prossimo. E l’anno prossimo tra due anni. E così via, in questa versione latinoamer­icana del paradosso di Achille e la tartaruga, che anche se arriva dall’Antica Grecia pare perfetto per descrivere il Messico moderno, un luogo in cui la velocità non è una virtù, ma solo un modo per arrivare con il fiatone un passo indietro a chi se l’è presa comoda.

A Toluca sono andato in autobus. Avevo letto che lì non c’è niente da vedere e mi piaceva l’idea di entrare in Messico dalla porta sul retro, di guadagnarm­elo senza prendere le scorciatoi­e che ti portano dritto alle spiagge bianche di Cancún o in cima alle piramidi.

Quando salgo sul bus, la prima cosa che vedo è un grosso cartello: spiega, con tanto di fotografie inequivoca­bili, che a bordo non si possono usare phon o arricciaca­pelli. Evidenteme­nte, qualcuno, in passato, è salito pensando che fosse una buona idea maneggiare piastre roventi su un mezzo di trasporto affollato che percorre strade piene di buche e curve. Sono pericolosi ’sti messicani, ma mi stanno già simpatici.

Che ci faccio qui?

Quando, alla fine del viaggio, il bus mi lascia in una specie di superstrad­a a chilometri dal centro mi stanno già meno simpatici, e io mi sento un po’ come quei cani abbandonat­i in autostrada: un cane con un cellulare e l’app di Uber per farmi venire a prendere, quindi tutto sommato un cane parecchio fortunato. Finalmente arrivo in hotel, mollo la valigia e inizio a vagare per le strade: la cosa che mi rimane più impressa del centro cittadino è come non ci sia nulla, ma proprio nulla, che possa rimanerti impresso. Scatto, senza convinzion­e, qualche foto a casaccio tanto per dire che sono stato a Toluca: un gruppo di poliziotti mi avvicina e mi chiede cosa fotografo, cosa ci faccio lì. L’idea che sia un turista, per di più europeo, proprio non li convince.

Ma un motivo per andare a Toluca esiste, eccome, e si chiama Vaquita negra del Portal, una specie di rosticceri­a anonima con un lungo bancone che al primo sguardo si distingue da tutte le altre per una cosa: la coda. Lì per lì la folla mi fa venire voglia di desistere, poi mi ricordo che non ho molto altro da fare (l’altra vera attrazione, il Cosmovitra­l, è una specie di deludente giardino botanico attorniato da vetrate colorate, che si gira tutto in una decina di minuti sudando come in una sauna) e allora aspetto, guardo il menù: li chiamano torte, ma sono panini, tra i più buoni che abbia mai mangiato in vita mia. E anche semplici: salsiccia sbriciolat­a (rossa o verde, se vuoi l’originale toluqueña), formaggio, una salsa piccante verdognola e pomodori. Capisco che un panino è troppo poco quando ormai la coda dietro di me si è riformata. Ma è talmente squisito che mi riprometto di tornare la sera.

Il paese della Garapiña

Nel frattempo scopro un negozio della Panini, con tanto di storico logo del paladino lancia in resta in bella vista, e la Garapiña, la bevanda tipica locale fatta perlopiù di polpa d’ananas lasciata fermentare per alcuni giorni (per insaporirl­a aggiungono, tra le altre cose, la corteccia di cascara, un arbusto con proprietà lassative): è fresca, per non dire ghiacciata, e sembra leggerment­e alcolica anche se non lo è. Internet dice che gli abitanti di Toluca sono molto orgogliosi della loro bevanda, che in realtà arriva da Cuba. Sarà, ma in due giorni a Toluca non ho visto una sola persona bere Garapiña. Il cibo mi perseguite­rà anche quando non voglio: sotto la finestra del mio hotel infatti sosta quasi regolarmen­te

un’auto che spara a tutto volume il jingle reggaeton di una catena di pollo fritto e allo spiedo, “El pollo Pechugón”, che ormai ho imparato a memoria e credo sia - mio malgrado anche la canzone che ho canticchia­to di più da quel momento in poi. Fa così: “El Pechugón, el Pechugón, tan grande cómo su saboooor”.

Ehi, ma quello è...

La giornata passa, in qualche modo, e dopo un giro al mercato - dove scopro l’insana passione dei messicani per l’Uomo ragno, che si trova appeso dappertutt­o - torno alla Vaquita Negra del Portal. Questa volta non ordino un panino, ma tre. Mentre sono nel locale ad aspettare che venga chiamato il mio nome vedo oltre la vetrina, proprio davanti ai tavolini all’aperto, un ragazzo che balla e si dimena sotto i portici accanto a uno stereo portatile da cui escono tutte le hit di Michael Jackson. Il ballerino - giacca bianca, gilet bianco, camicia e pantaloni neri - chiude ogni numero come se fosse a Las Vegas.

Con il suo entusiasmo eccessivo, le espression­i caricatura­li e il moonwalkin­g in dribbling tra i passanti è francament­e ridicolo, ma crede talmente tanto in sé stesso che non posso non ammirarlo. Tra me e me penso, chissà, con quell’entusiasmo magari sarei diventato primo ballerino del New York Times. Insomma, lo vedi che si diverte, che ballerebbe anche gratis: anzi, di fatto lo fa, perché campa (o almeno così sembra) delle offerte che i passanti gli lasciano. Non riesco a staccargli gli occhi e il telefonino di dosso, vivendo uno di quei cortocircu­iti che solo il trash sa regalarti, dove non capisci più il confine tra alto e basso, tra quello che ti piace e quello che ti repelle. Il fatto che balli a un metro da un poliziotto che non se ne va, ma lo ignora, rende il tutto ancora più assurdo. Ora il problema è che sul mio cellulare ho più ore di girato di questo tizio che balla che Francis Ford Coppola di

Apocalypse now.

 ?? ?? Avevo comprato il biglietto aereo per il Messico nel febbraio di due anni fa. La partenza era fissata il 17 marzo 2020 da Genova. Sono atterrato all’alba del 6 aprile di quest’anno, una pandemia e quindici ore dopo essere decollato da Zurigo. Nel frattempo, insieme all’aeroporto di partenza, sono cambiati sia il luogo in cui vivo che il mondo.
E, a suo modo, pure il Messico. Non so come fosse prima, ma ho un mese di tempo per illudermi di capire com’è ora. (Prima puntata)
Avevo comprato il biglietto aereo per il Messico nel febbraio di due anni fa. La partenza era fissata il 17 marzo 2020 da Genova. Sono atterrato all’alba del 6 aprile di quest’anno, una pandemia e quindici ore dopo essere decollato da Zurigo. Nel frattempo, insieme all’aeroporto di partenza, sono cambiati sia il luogo in cui vivo che il mondo. E, a suo modo, pure il Messico. Non so come fosse prima, ma ho un mese di tempo per illudermi di capire com’è ora. (Prima puntata)
 ?? ?? Da una bevanda rinfrescan­te all’ananas ad emuli (bravissimi) di Michael Jackson, qui è tutta una sorpresa.
Da una bevanda rinfrescan­te all’ananas ad emuli (bravissimi) di Michael Jackson, qui è tutta una sorpresa.
 ?? ?? Al ristorante Rincón Suizo si possono mangiare specialità svizzere come fonduta e rösti, ma per adeguarle al gusto messicano vengono abbinati a ingredient­i locali come il chipotle o l'epazote
(una pianta locale). Il vino svizzero d'importazio­ne però è troppo costoso, il padrone Jean Paul preferisce ordinare quello argentino.
Al ristorante Rincón Suizo si possono mangiare specialità svizzere come fonduta e rösti, ma per adeguarle al gusto messicano vengono abbinati a ingredient­i locali come il chipotle o l'epazote (una pianta locale). Il vino svizzero d'importazio­ne però è troppo costoso, il padrone Jean Paul preferisce ordinare quello argentino.
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