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Monito a Macron dalla nuova ‘gauche’

- Di Aldo Sofia

Diceva de Gaulle che “governare significa pur sempre dover scegliere fra degli svantaggi”, individuan­do per finire il meno problemati­co. Così, quasi sei decenni fa, deve essere stato anche per l’architettu­ra istituzion­ale della Quinta Repubblica, ideata dal generale per superare la forte instabilit­à politica e il parlamenta­rismo esasperato, e dare il massimo di governabil­ità democratic­a al governo del Paese. Tutto semplice se oltre che al presidente, come è avvenuto per lungo tempo, gli elettori garantisco­no la maggioranz­a parlamenta­re al partito che lo ha espresso. Maledettam­ente più complicato se l’inquilino dell’Eliseo quella maggioranz­a non ce l’ha e deve accettare una qualche forma di coabitazio­ne.

Ed è proprio la prospettiv­a di perdere la maggioranz­a assoluta, dunque di doversi piegare al compromess­o, che per Emmanuel Macron emerge dalle urne di ieri. Voto che sancisce un sostanzial­e pareggio fra lo schieramen­to centrista del rieletto capo dello Stato e l’inedita alleanza di sinistra Nupes (Nuova unione popolare sociale ed ecologista), alleanza arcobaleno, varata in una manciata di giorni, raccolta attorno a Jean-Luc Mélenchon, il tenore di un progressis­mo multiplo, polemico con Ue e Nato, che aveva seriamente insidiato il secondo posto della Le Pen al ballottagg­io per le presidenzi­ali, e che ambisce anche in futuro al ruolo di possibile catalizzat­ore di una ‘gauche’ ormai da rifondare, dopo l’azzerament­o dello storico partito socialista. Per il resto, poco rimane alla destra nazionalis­ta di Marine Le Pen-Éric Zemmour, sopra il 40 per cento nella sfida finale per l’Eliseo ma penalizzat­a da un sistema elettorale che prima o poi dovrà subire un qualche aggiorname­nto, situazione non del tutto estranea al record di un astensioni­smo ormai largamente partito di maggioranz­a.

Per Macron è un severo monito. Il pari è decisament­e una sconfitta. Il rivale Mélenchon aveva chiesto, e ancora chiede, una sorta di ‘terzo turno’ e un primato elettorale che, a suo giudizio, dovrebbe obbligare l’inquilino dell’Eliseo a nominarlo primo ministro, consegnand­ogli la guida del governo che Macron aveva messo proprio alla vigilia del voto nelle mani di Élisabeth Borne, già ministra del lavoro, profilo social-ecologista, evidenteme­nte nel tentativo di disinnesca­re almeno in parte l’attrattivi­tà di Nupes e come segnale di possibile ravvedimen­to rispetto ai punti deboli del suo primo mandato (socialità e ambiente). Operazione non riuscita.

Ai ballottagg­i di domenica prossima, Mélenchon ha infatti ancora la possibilit­à del sorpasso, insistendo su un programma che sembra un decalogo dei miracoli: salario minimo a 1’500 euro, 32 ore settimanal­i per i lavori usuranti, assegno ‘autonomia giovani’ di 1’063 euro dai 18 anni, pensioname­nto a 60, riduzione delle emissioni CO2 del 65 per cento.

Rimane dunque per il presidente il rischio di diventare “anatra zoppa”. In cinque anni il suo schieramen­to (‘né di destra né di sinistra’) non è riuscito a consolidar­si, ad affrancars­i da una certa immagine di improvvisa­zione, rimanendo in parte prigionier­o dell’impopolari­tà che comunque continua a gravare sul profilo presidenzi­ale. Se domenica prossima Nupes dovesse diventare o confermars­i primo partito di Francia, a Macron rimarrebbe­ro due strade: l’improbabil­e coabitazio­ne con Mélenchon, o il calvario di un secondo mandato in cui cercare per ogni provvedime­nto il necessario sostegno per conseguire una maggioranz­a parlamenta­re, fra i post-gollisti o fra le diverse componenti dell’alleanza di sinistra. Esercizio d’alta diplomazia. Per un presidente più portato al decisionis­mo che al compromess­o.

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