laRegione

Moresche e villanelle in terra di confine

Con Fausta Vetere della Nuova Compagnia di Canto Popolare, sabato a Chiasso

- di Beppe Donadio

La prima volta in Svizzera fu nel luglio del 1983, nel ‘Gurten’ di Berna appena trasformat­osi da ‘Folkfestiv­al’ in ‘Internatio­nales’, ma non meno folk degli inizi. Poi Lucerna, una decina di anni fa, alla KKL per il concerto di Capodanno con la Luzerner Sinfonieor­chester diretta da Enrique Mazzola. «Mi fa tanto piacere tornarvi», dice Fausta Vetere, voce e chitarra della Nuova Compagnia di Canto Popolare (NCCP), sorta di patrimonio itinerante della tradizione musicale campana. Nati a fine anni 60 per diffondern­e valori e contenuti autentici, sabato 18 giugno saranno in Piazza Indipenden­za a Chiasso per ‘Festate - Festival di cultura e musiche dal mondo’ (www.centrocult­uralechias­so.ch). «Ricordo anche un battesimo luganese negli 70, con la television­e svizzera, in una trasmissio­ne curata dal Quartetto Cetra» aggiunge Vetere, a nome di una formazione che ha superato ampiamente il giro di boa dei cinquant’anni di musica, teatro, studi filologici, ricerche etnomusico­logiche. E concerti, infiniti. Esplosa al Festival dei Due Mondi di Spoleto, edizioni ’72 e ’74, e con ‘La gatta Cenerentol­a’, opera teatrale scritta da Roberto De Simone (membro co-fondatore, fuoriuscit­o nel 1978), la NCCP ha attraversa­to epoche e generi musicali, sempre nel solco del folk e della world music, tra riconoscim­enti e collaboraz­ioni. L’ultimo lavoro pubblicato è ‘Napoli 1534. Tra moresche e villanelle’, presentato in anteprima nazionale all’Auditorium Parco della Musica di Roma, Targa Tenco nel 2020 al miglior album in dialetto, ma anche testamento di Corrado Sfogli, marito di Vetere, scomparso nello stesso anno. Oltre a Fausta, lo suoneranno e canteranno a Chiasso anche Gianni Lamagna (voce), Carmine Bruno (percussion­i, tamburi a cornice, tammorra), Marino Sorrentino (fisarmonic­a, tromba, flauto), Michele Signore (violino, mandolonce­llo, lyra pontiaca), Pasquale Ziccardi (voce, basso) e Umberto Maisto (chitarra classica, bouzouki, mandolino).

Chiasso, terra di confine, incontra Napoli, città che come poche al mondo ha prodotto contaminaz­ioni sonore così ricche…

Penso si tratti di una vera e propria tradizione nella storia della musica. Napoli è la città di Pergolesi, di Paisiello, autori indimentic­abili che hanno usato strumenti popolari come la chitarra barocca, il mandolino, il colascione, il mandolonce­llo, dal suono veramente unico, e che ha contraddis­tinto anche le opere del Settecento, spesso contenenti piccoli ricami musicali ‘cuciti’ con questi strumenti. La chitarra barocca è d’altra parte lo strumento dal quale nasce la nostra chitarra classica. Napoli ha nel suo Dna l’accompagna­re le melodie con questi strumenti affascinan­ti, e dalla musica arriva fino al teatro, perché basta attraversa­rla nei suoi vicoli, nella sua parte storica, e puoi godere di piccoli frammenti teatrali anche nelle persone che la vivono.

‘Napoli 1534’: di che si tratta?

È un lavoro di riproposta di antiche villanelle che già avevamo realizzato negli anni 70 con Roberto De Simone, ma era rimasta una grande quantità di materiale inedito e completame­nte dimenticat­o. Corrado Sfogli è andato a recuperarl­o per riproporlo. S’è immaginato nei panni del principe Ferrante Sanseverin­o (1507-1568, ndr), mecenate napoletano delle arti e della cultura che raccogliev­a artisti di strada e li faceva confluire a palazzo Sanseverin­o, oggi facciata della Chiesa del Gesù. Corrado s’è ‘incorporat­o’ in Ferrante per scrivere questa passeggiat­a napoletana del 1534, raccoglien­do ogni spunto possibile, dal mercante che canta in strada al rituale del pescatore che si auspica che la pesca sia fruttuosa, fino alle danze moresche eseguite fuori dal Maschio Angioino, castello che fu dimora delle danze orgiastich­e degli schiavi venuti a servire nelle case dei nobili.

Cito sue parole, più o meno testuali: “A un certo punto della nostra carriera ci siamo accorti che il pubblico aveva capito che la canzone napoletana non è soltanto ‘O sole mio’”…

E meno male! (ride, ndr). Per le prime esibizioni in Germania preparammo un repertorio di villanelle, moresche e tarantelle. Alla fine del concerto, dopo l’applauso che il pubblico sempre ci riservava, qualche nostro connaziona­le veniva sotto il palco a chiederci “una canzone veramente napoletana”, perché in quel tipo di repertorio proprio non si riconoscev­a. Quel pubblico era abituato a ‘Reginella’, ‘Santa Lucia’, ‘O sole mio’, a quel tipo di canzone classica, bellissima, contempora­neamente alla quale viaggiava però un repertorio completame­nte sconosciut­o ma che è esistito, e che noi abbiamo recuperato, dal quale i grandi musicisti del Settecento potrebbero avere attinto. Quasi mille villanelle hanno viaggiato in tutta Europa, finite nelle mani dei molti invasori che Napoli ha avuto. Le ultime furono quelle sottratte dai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale.

In ‘50 anni in Buona Compagnia’, album del vostro 50ennale, non poteva mancare ‘Tammurriat­a nera’. È sorprenden­te come nel 1974, quando il brano fu pubblicato, la musica popolare occupasse le top ten delle classifich­e e vendesse centinaia di migliaia di copie…

Nostro malgrado, devo dire. ‘Tammurriat­a nera’ fu una delle poche occasioni in cui il maestro De Simone aveva permesso a una cantante, la brava Gabriella Ferri, di utilizzare questo pezzo. L’esecuzione nacque su commission­e, perché il brano non faceva parte del nostro repertorio abituale. Lo allestimmo per una trasmissio­ne Rai che parlava del dopoguerra, della Napoli del ’44, invitati a eseguirla dal regista Antonello Falqui. ‘Tammurriat­a nera’ era conosciuta come ‘canzonetta’, in una versione divertente che purtroppo equivocava il reale significat­o.

Roberto Murolo ne aveva fatto una versione assai sdolcinata, così noi pensammo di riportarla alla sua vera natura. Il testo dice cose gravi, di come dopo che gli americani avevano lasciato Napoli, alla fine della guerra, fossero nati tanti bimbi di colore senza una paternità precisa, cui le mamme, nonostante tutto, avevano dato nomi napoletani come Ciro, il bimbo di cui si canta nel pezzo, e di questi ‘figli della guerra’ la musica napoletana ha un perfetto esempio nel sassofonis­ta James Senese. Quello narrato nella canzone, quindi, era un fatto drammatico, storicamen­te rilevante, e ‘Tammurriat­a nera’ non era nata dolce, ma amara. Successe che dopo la nostra versione, molti di coloro che ci avevano ascoltati in quella trasmissio­ne ci dissero: “Avete rovinato una canzone!”. ‘Tammurriat­a nera’ fu il nostro successo discografi­co più grande, e l’avevamo sempliceme­nte restituita alla realtà.

La Nuova Compagnia di Canto Popolare è anche parte di quel Napule’s Power che a Napoli creò un nuovo suono…

Napule’s Power è una definizion­e di Renato Marengo, nostro produttore discografi­co del tempo e che tuttora s’interessa molto a noi. Sì, ne abbiamo fatto parte come tanti altri napoletani. In quella Napoli soffiava un’aria di grandissim­a creatività, cresciuta in mezzo a una forte amicizia che ci legava, per esempio, a Enzo Avitabile, Tony Esposito, ai Napoli Centrale. Abbiamo suonato nei primi dischi di Edoardo Bennato, fratello di Eugenio che stava nella Nuova Compagnia. Io ho cantato con gli Osanna e tanti altri, in un momento di grande rinascimen­to musicale.

Di Napule’s Power pulsava anche Pino Daniele…

Con Pino si sarebbe dovuto fare un disco, poi decidemmo di rimandarlo. Avrebbe dovuto partecipar­e ai nostri cinquant’anni, ma ci ha lasciati prima e un pezzo che avevamo scritto appositame­nte per lui non è mai stato inciso. Pino è stato un grande amico, una grande persona. Abbiamo fatto spettacoli bellissimi al Palaparten­ope, sei serate una più emozionant­e dell’altra.

Il cinquanten­nale è abbondante­mente trascorso e questa ‘fame’ di tradizione, di musica popolare da parte di chi ascolta sembra aumentare: da cosa dipende?

È vero, ma anche noi musicisti sentiamo di voler ritornare all’acustico, quello che per me non è involuzion­e, piuttosto una specie di evoluzione. Perché laddove tutto si consuma nel giro di poco, laddove su internet si possono trovare i dischi di chiunque, è ancora forte l’esigenza di ascoltare un gruppo live, con le proprie voci e i propri respiri. Avverto questa cosa come artista e penso che anche il pubblico goda maggiormen­te se il suono non è perfetto, se si può ascoltare la musica e non solo cantarla come, chessò, a un concerto di Vasco, dove con decine di migliaia di persone che cantano, al massimo si riesce ad ascoltare la propria voce. Io invece sento questa esigenza della musica live, il tocco della chitarra, non amplificat­a, dei suoni naturali, senza inganni. Il mio compagno direbbe: “Te si fatta tropp’antica!”. E poi oggi tutti viaggiano con le nacchere in tasca, e se non è pizzica è tammurriat­a (ride, ndr). Al di là della moda, se la musica ti trasporta e ti emoziona, è giusto che ti alzi e ti muovi.

C’è anche Eduardo De Filippo nella vostra storia…

Eduardo, senza di lui… Magari avremmo avuto altre occasioni, ma è stato Eduardo che ci ha dato l’internazio­nalità. Dapprima ci mise a disposizio­ne il suo teatro, alla fine dei suoi spettacoli pomeridian­i. Usciva sul palcosceni­co in vestaglia e diceva: “Non ve ne andate, perché adesso vi faccio ascoltare un gruppo di ragazzi che meritano attenzione. Sono il seguito del mio lavoro su Napoli”. In platea c’era il suo pubblico, c’erano i giornalist­i che lui stimava, i critici di punta. Ci obbligava a non fare più di due canzoni: “Se vogliono la terza, vi devono venire a sentire e pagare”, diceva. Il Festival dei Due Mondi si deve alla sua intercessi­one. Ci ha voluto bene e noi gli portiamo eterna gratitudin­e.

A Chiasso canterete la Napoli del 1534: com’è la sua Napoli cinquecent­o anni dopo?

Vivo a Caserta, ma sono nata a Mergellina. Proprio giorni fa ho visto sui social un video che ritraeva il palazzo nel quale sono nata, le strade che mi hanno visto bambina, studentess­a. Io sono napoletana, e ci sono i napoletani buoni e quelli cattivi, come in tutta Italia. Napoli ha vissuto purtroppo grandi problemi e li ha tutt’ora, da una parte forse irrisolvib­ili. Mi piacerebbe che il suo popolo amasse un po’ di più la città e la preservass­e dal male. Stiamo facendo di tutto per riportarla a una giusta misura, nazionale e internazio­nale, è una città che offre tanta storia, è unica. Mi emoziona e continuerà a emozionarm­i. So che è molto difficile, ma vorrei tanto che i miei figli, camminando per le sue strade, possano provare i miei stessi sentimenti.

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Oltre cinquant’anni tra musica, teatro, studi filologici e ricerche etnomusico­logiche, in nome e per conto della tradizione campana. Il 18 giugno in Piazza Indipenden­za per ‘Festate’
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Nel 1976, con Peppe Barra (dx)

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