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La sinfonia di Van Rijthoven, l’ultimo degli outsider

L’olandese, che non aveva mai vinto un incontro di un torneo Atp, ha trionfato a Hertogenbo­sch. Bradbury, il Leciester, Raducanu: storie di campioni imprevisti.

- di Roberto Scarcella

La prima sinfonia di Van Rijthoven magari sarà anche l’ultima, o magari no. Di sicuro resterà la più incredibil­e e inattesa. Lunedì scorso, quando il tennista olandese si è svegliato per andare a giocare il primo turno del torneo di Hertogenbo­sch, non aveva ancora vinto una singola partita in un tabellone principale del circuito Atp.

Tim Van Rijthoven ha 25 anni, non proprio un ragazzino agli esordi. Era passato profession­ista nell’ormai lontano 2015 raccoglien­do solo una serie di delusioni, infortuni, ripetute eliminazio­ni nei turni di qualificaz­ione dei grandi tornei e qualche exploit nel circuito Challenger, la serie B del tennis mondiale. Appena metteva piede sull’ultimo gradino veniva ricacciato giù. Una specie di maledizion­e fiabesca, paragonabi­le a quella di chi riesce ad arrivare sull’uscio del grande ballo, senza mai riuscirvi a partecipar­e.

Domenica Van Rijthoven ha sconfitto nella finale di uno dei più noti tornei sull’erba nientemeno che l’attuale numero 1 della classifica mondiale, il russo Danil Medvedev, uno che – per capirci – ha vinto gli Us Open dello scorso anno battendo Novak Djokovic (negandogli il Grande Slam), alzato la Coppa Davis, raggiunto due finali consecutiv­e degli Australian Open. A febbraio, il russo era anche diventato per la prima volta il numero 1: primo estraneo a occupare il trono che, dal 2004, era diventato un affare di famiglia tra i Big Four (Federer, Nadal, Djokovic e Murray).

Dall’alto della sua classifica, a Hertogenbo­sch, Medvedev aveva potuto perfino saltare il primo turno. Van Rijthoven, che nella stessa graduatori­a si trovava al numero 205, non avrebbe nemmeno avuto lo status per giocare il torneo senza passare dalle qualificaz­ioni. A portarlo al primo turno è stata una wild card, una specie di jolly che gli organizzat­ori si tengono per dare spazio a stelle decadute e ai tennisti di casa. Van Rijthoven, nato a, Roosendaal, a 70 chilometri dal tennis club di Hertogenbo­sch, è stato uno dei tre fortunati olandesi a ricevere il jolly e saltare la fila, ritrovando­si direttamen­te nel tabellone principale. Gli altri due sono usciti subito, lui – invece – ha sconfitto (seppur con estrema fatica, con un doppio tiebreak) il non irresistib­ile australian­o Ebden e anche la sua personale maledizion­e.

L’incantesim­o spezzato

Più che proibitivo, il suo percorso pareva impossibil­e: comprendev­a l’americano Fritz (numero 13 al mondo) al secondo turno e il canadese AugerAlias­sime in semifinale, numero 9 Atp e uno dei pochi “erbivori” rimasti nel circuito. Van Rijthoven, come reso invulnerab­ile dall’incantesim­o spezzato con la prima vittoria, contro ogni pronostico sbaraglia tutti fino al mostro finale, Medvedev, che viene annichilit­o con un netto 6-4 6-1. Nel tennis, come in tutti gli sport, non sono mai mancate le sorprese, ma da non vincere mai ad alzare un trofeo nel giro di una settimana ce ne corre.

La wild card più famosa della storia del tennis resta quella concessa, nel 2001, a Wimbledon al croato Goran Ivanisevic, uno che sapeva vincere, ma nel tempio inglese si era dovuto inchinare per tre volte in finale. Nel 1999 iniziò ad avere guai a una spalla: un problema per un atleta d’alto livello, un grosso problema per un tennista, un problema enorme per chi – come lui – dipendeva quasi esclusivam­ente dal servizio. Dall’alto del suo metro e 93 poteva tirare bolidi per 5 set di fila se ce ne fosse stato bisogno (suo il record di ace in una sola stagione: 1477), ma in quel periodo Ivanisevic non riusciva più a rimettere in piedi il suo tennis, arrivando nel 2000 a un tabellino molto più a simile a quelli fin qui registrati da Van Rijthoven, con 11 sconfitte nei primi turni. Quando arrivò la wild card per Wimbledon i bookmaker quotavano la sua vincita 150-1, che tradotto in parole sarebbe un “praticamen­te impossibil­e”. A peggiorare il quadro la sconfitta al torneo-test del Queen’s, l’ultimo prima di Wimbledon, in cui Ivanisevic venne subito fatto secco dall’italiano Caratti, uno che sull’erba inglese non era mai andato oltre il secondo turno.

Ivanisevic però risorge e vince Wimbledon mettendo in fila tennisti più giovani – e teoricamen­te (almeno in quel momento) più forti di lui – tra cui Roddick, Safin e Henman, sconfiggen­do in finale un superspeci­alista come l’australian­o Rafter. Anche la belga Clijsters è riuscita a portare a casa uno Slam con in mano una wild card. Gli Us Open del 2009, vinti dopo essere diventata mamma: non accadeva dal 1980. Una situazione talmente inusuale da far tirare fuori al New York Times l’iconico titolo “The Mother of all the Comebacks” (“La Madre di tutti i ritorni”).

Successi inattesi, quelli di Ivanisevic e Clijsters, ma pur sempre di campioni conclamati. Lo scorso anno invece, la finale femminile degli Us Open è stata tra due teenager semisconos­ciute, la canadese Leylah Fernandez e la britannica Emma Raducanu. Mentre le teste di serie rotolavano una dietro l’altra, ghigliotti­nate dalle avversarie, le due avanzavano nel tabellone fino alla vittoria della meno prevedibil­e a inizio torneo, Raducanu, partita addirittur­a dalle qualificaz­ioni. Mai accaduto prima. Tra gli appassiona­ti di tennis molti ricordano partite choc, come la sconfitta di Federer a Wimbledon 2013 contro l’ucraino Stakhovski (ritiratosi a inizio anno e ora soldato al fronte), quella di Nadal contro Söderling al Roland Garros 2009 e di Serena Williams contro l’italiana Vinci alla semifinale degli Us Open 2015, ma nessuno di loro arrivò ad alzare il trofeo.

Diversa e con un lieto fine è la storia di Michael Chang, ancora oggi il più giovane vincitore di uno Slam maschile a 17 anni e 110 giorni. Epica è rimasta la sua partita a Parigi contro l’algido Ivan Lendl, un ottavo di finale che sembrava perso (sotto di due set) e poi vinto grazie a una strategia apparentem­ente folle che invece finì col far impazzire l’avversario: una serie di colpi controintu­itivi e quasi amatoriali, compresa la fantomatic­a “battuta da sotto”, di solito riservata ai principian­ti e quasi oltraggios­a in un tempio del tennis. Superato Lendl, Chang avanzò fino a sconfigger­e in finale un’altra leggenda come Stefan Edberg. Il Roland Garros 1989 rimarrà il primo e ultimo Slam nella bacheca di Chang.

I miracoli americani

Ma di vittorie e sconfitte impossibil­i è piena l’intera storia dello sport, che di queste imprevedib­ili stramberie si nutre per ingigantir­e un’epica che i soli e soliti successi dei favoriti non le garantireb­bero. Nel 1990 fece scalpore la sconfitta di Mike Tyson contro il misconosci­uto Buster Douglas, l’ennesima vittima sacrifical­e che seppe invece ribellarsi al suo destino (ma c’è chi dice che dietro ci fosse un giro di scommesse ultramilio­nario, Douglas era quotato 42-1), così come resta inspiegabi­le il fallimento della leggenda sovietica del salto con l’asta Sergey Bubka alle Olimpiadi di Barcellona ’92: campione olimpico e del mondo in carica, autore degli ultimi 14 record del mondo (l’ultimo due mesi prima dei Giochi), Bubka fallì la misura d’ingresso a 5,70 metri, non contento chiese di alzare l’asticella al terzo e ultimo tentativo a 5,75: non la superò, lasciando spazio alle medaglie a un gruppo di comprimari, salvo poi rifare il record del mondo in un meeting di Padova, a Olimpiadi appena concluse.

Un altro inatteso tonfo sovietico fa ormai parte del racconto rambesco con cui lo sport americano rappresent­a se stesso: si tratta della partita decisiva delle Olimpiadi di Lake Placid 1980, quando la squadra statuniten­se, imbottita di giocatori dei college, sconfisse gli strafavori­ti con addosso la maglietta Cccp. Nacque un soprannome, per quell’incontro, che divenne anche un film: “Miracolo sul ghiaccio”.

I miracoli sportivi agli americani piacciono particolar­mente. Dopo oltre un secolo, infatti, in America si parla ancora dei “Miracle” Braves, la squadra di baseball di Boston che nel 1914 passò metà campionato all’ultimo posto, salvo iniziare a vincere e non smettere più, strapazzan­do nella finale delle World Series i favoritiss­imi Philadelph­ia Athletics per 4-0.

Da Pyongyang con furore

Anche il judo ha la sua storia di wild card, quella della nordcorean­a Kye Sun Hui, che nella finale dei pesi ultralegge­ri delle Olimpiadi di Atlanta ’96 sconfisse la leggenda giapponese Ryoko Tamura. Quest’ultima arrivava da 84 vittorie consecutiv­e, mentre l’atleta coreana aveva 16 anni, era entrata nella competizio­ne solo grazie a un invito del Cio e non aveva mai gareggiato fuori dal suo Paese. Il calcio, con la sua popolarità e i punteggi bassi che favoriscon­o tutti i Davide che vogliono sfidare Golia, è lo sport che ha dato più visibilità a certi successi al limite dell’inspiegabi­le. Il caso più eclatante resta quello degli Europei del 1992, vinto da una squadra, la Danimarca, che nemmeno si era qualificat­a per giocarli. Ripescati a pochi giorni dal torneo dopo la squalifica della Jugoslavia in guerra, i danesi riuscirono nell’impresa di eliminare francesi, olandesi e tedeschi e alzare la coppa. Dodici anni dopo, a Euro 2004, fu la Grecia, una squadra con ancor meno talento, a uscire vincitrice giocando un catenaccio d’altri tempi. Un mix di bravura nel difendere, fortuna e suicidi sportivi altrui li portò sino alla finale, dove sconfisser­o il Portogallo padrone di casa con un risultato quasi ovvio visto il loro modo di giocare: 1-0.

L’ultima favola calcistica è quella del Leicester City, che nel 2016 si laureò campione d’Inghilterr­a contro ogni pronostico. La quota dei bookmaker era talmente alta a inizio stagione (5’000-1), che quando si cominciò a capire che la squadra poteva conquistar­e il titolo, le agenzie di scommesse si offrirono di pagare quote ridotte ai teorici vincitori prima ancora che finisse il campionato pur di limitare il danno economico. Qualcuno accettò, sbagliando. Due anni prima il Leicester era nella serie B inglese, l’anno precedente si salvò con un rimonta nelle ultime giornate. Lo stesso allenatore Ranieri parlava di salvezza fino a oltre metà stagione: quello, d’altronde, era l’obiettivo che la proprietà gli aveva chiesto.

In questa lista non si può non nominare Steven Bradbury, il pattinator­e australian­o di short track la cui storia è talmente assurda che a inventarla e metterla in scena non sarebbe risultata credibile. Dopo un infortunio che gli fece rischiare la vita (una lama di un avversario gli recise l’arteria femorale, perse 4 litri di sangue ed ebbe bisogno di 111 punti di sutura e 18 mesi di riabilitaz­ione), il suo momento arrivò alle Olimpiadi invernali di Salt Lake City, nel 2002, quando entrò nella semifinale dei 1’000 metri grazie a una squalifica di chi l’aveva battuto. In netto ritardo durante la semifinale assistette alla caduta di tutti quelli che lo precedevan­o. Quell’ecatombe gli permise di arrivare in finale, dove accadde la stessa cosa: tutti giù per terra, tranne lui, che arriva in ritardo, ma almeno arriva. Medaglia d’oro.

Ora in Australia c’è un’espression­e dedicata a lui: “Doing a Bradbury” (“Fare un Bradbury”), ovvero vincere in modo clamoroso e inatteso. Chissà se in inglese c’è già un modo per dire “vincere tutto senza aver mai vinto nulla prima”. “Doing a Van Rijthoven” potrebbe funzionare.

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KEYSTONE Tim Van Rijthoven dopo aver sconfitto Danil Medvedev nella finale Atp di Hertogenbo­sch, nei Paesi Bassi
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KEYSTONE Steven Bradbury vince l’oro olimpico
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KEYSTONE Buster Douglas manda a tappeto Mike Tyson

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