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Il ‘Sonderfall’ Ticino tra realtà e stereotipi

Uno studio dell’Ustat ci aiuta a capire meglio se e come il nostro cantone si differenzi­a dal resto della Svizzera, al di là dei tanti luoghi comuni

- di Lorenzo Erroi

“Caso speciale”, “figliolo problemati­co”, sciuscià cresciuto dalla parte sbagliata del “Polentagra­ben”, perfino ribelle propenso a “Tessinerei­en”, mattane che si spieghereb­bero solo con l’essere troppo vicini al mondo latino. Vittima dei “balivi” oppure, a seconda degli occhi di chi guarda, del suo stesso vittimismo. La rappresent­azione del(la) ticinese è storicamen­te ostaggio di grossolani stereotipi e narrazioni distorte, non solo sull’altro versante del Gottardo. Per mettere a fuoco con maggiore lucidità la posizione del cantone rispetto al resto della Svizzera – per capire insomma se e in che misura esista davvero un ‘Sonderfall’ Ticino – un aiuto importante ci viene dalla statistica. Come nel caso di un piacevole contributo che

Mauro Stanga ha appena consegnato alla rivista ‘Dati’: il ricercator­e dell’Ufficio di statistica (Ustat) costruisce coi numeri un percorso che ci dice qualcosa di più su quello che siamo o che crediamo di essere. Il contributo, pubblicato oggi, è introdotto da una calzante citazione del cantautore Brunori Sas: “Dividere le cose, è un gioco della mente / il mondo si divide inutilment­e”. Cogliamo l’occasione per dividere e unire le cose direttamen­te con l’autore.

Tra le varie indicazion­i curiose che emergono da questa ‘antologia’ di statistich­e, notiamo che i residenti in Ticino mangiano relativame­nte poca verdura e fanno poco sport, almeno rispetto al resto del Paese. Eppure si direbbe che non ne siano pienamente consapevol­i.

In effetti, se si chiede ai residenti in Ticino se mangino abbastanza frutta e verdura e facciano abbastanza sport, questi rispondono in senso affermativ­o all’incirca tanto quanto gli altri svizzeri. Se però a quello stesso campione rivolgiamo domande che richiedono un riscontro più oggettivo – in particolar­e, quanti minuti a settimana dedicano ad attività che provocano sudore e fiatone e quante volte di preciso mangiano verdure – allora si nota una certa discrepanz­a: anche in Ticino le persone classifica­bili come attive superano il 60%, ma la media svizzera è ben oltre il 70%. L’impression­e è che nel nostro cantone vi sia una maggiore autoindulg­enza nello stabilire cosa sia ‘abbastanza’, magari anche per ragioni culturali e linguistic­he.

Venendo a cose più ‘ingombrant­i’, dai grafici si nota una discrepanz­a anche rispetto al rapporto con l’estero: i ticinesi sono i primi in Svizzera a dirsi pronti a denunciare episodi di razzismo, in generale si sentono meno minacciati dagli stranieri rispetto allo svizzero ‘medio’, ma sono molto più preoccupat­i dalla concorrenz­a estera sul mercato del lavoro.

Le risposte – fornite dalle stesse persone nella stessa indagine – cambiano radicalmen­te quando nelle domande viene esplicitam­ente evocato il mercato del lavoro. La sensazione di essere minacciati dagli stranieri passa in Ticino da un 15% scarso a un 35% abbondante allorché viene aggiunto questo elemento. Un fenomeno questo che non si riscontra nell’intera Svizzera. Evidenteme­nte giocano un ruolo fondamenta­le le condizioni specifiche di un’economia di frontiera, reali o percepite, mentre per tutto il resto si registra una certa apertura. In Ticino risulta del resto più diffusa anche la sensazione di poter perdere l’attuale posto di lavoro, che provoca insicurezz­a e, a quanto emerge, anche diffidenza e chiusura.

Questa dicotomia fa il paio con un’altra: vediamo che un ticinese su due è figlio, nipote o pronipote di uno straniero – ben al di sopra del 38% misurato come media svizzera – eppure numerose votazioni paiono confermare la propension­e a una certa chiusura delle frontiere.

In questo senso dobbiamo notare che c’è stata una netta inversione di tendenza a partire dagli anni Novanta. Fino ad allora il Ticino sosteneva in modo massiccio i trattati internazio­nali e contrastav­a con decisione le iniziative volte a limitare l’accesso degli stranieri: l’iniziativa Schwarzenb­ach del 1970, che avrebbe condotto al rimpatrio in massa dei lavoratori esteri, fu bocciata in Ticino dal 63,7% dei votanti, rispetto al 54% nazionale. Nel Luganese e nel Mendrisiot­to, dove vi era già una particolar­e concentraz­ione di lavoratori dall’Italia, si arrivò rispettiva­mente al 77% e all’87% di ‘no’. Negli anni Novanta – complici la disoccupaz­ione e le difficoltà sul mercato del lavoro, anche in ragione di congiuntur­e globali – si è invece sviluppata una maggiore chiusura.

Guardando verso Berna, assistiamo a un altro fenomeno paradossal­e: il Ticino ha avuto una rappresent­anza in Consiglio federale molto più assidua di quella di tutti gli altri cantoni, fatta eccezione per Zurigo, Vaud, Berna e Neuchâtel. Eppure il compasso del nostro dibattito politico pare estendersi di rado al di fuori della linea Chiasso-Airolo, tant’è vero che siamo l’unico cantone – insieme al Vallese e al Giura, ma lì si registrano differenze meno esplicite – che vede una partecipaz­ione al voto maggiore per le elezioni cantonali rispetto alle federali. C’entra la storia?

Incidono certamente le travagliat­e relazioni con Berna attraverso i secoli, segnate dalla percezione di essere trattati come fratelli minori dai ‘balivi’, tanto che non tutti i ticinesi erano inizialmen­te convinti dall’idea di entrare nella Confederaz­ione. Un episodio istruttivo riguarda il liberale Stefano Franscini, consiglier­e federale nel XIX secolo e padre della statistica cantonale: nel 1854 fu riconferma­to in Consiglio nazionale solo grazie a un seggio complement­are gentilment­e messo a disposizio­ne dal canton Sciaffusa, in quanto i ticinesi non lo avevano riconferma­to in seguito a faide politiche cantonali. Un aneddoto che illustra bene come le relazioni della politica locale con quella federale siano state spesso tormentate, tortuose e potenzialm­ente divergenti rispetto alle tendenze nazionali, mentre l’attenzione collettiva ha sempre privilegia­to la dimensione cantonale. Anche in questo caso possono avere un ruolo le distanze culturali, geografich­e e linguistic­he. Le stesse che poi scoraggian­o anche il pendolaris­mo intercanto­nale: solo l’1% dei residenti in Ticino fa la spola per andare a lavorare ‘in dentro’ contro l’oltre 50% del canton Appenzello Esterno, situato all’estremo opposto della classifica.

Siamo il quinto cantone che alle votazioni su quesiti federali si esprime più spesso controtend­enza. Un episodio un po’ buffo citato nello studio: il 30 novembre 1980 solo il 18% dei ticinesi votò a favore dell’obbligo di indossare la cintura di sicurezza, contro il 51,6% nazionale. L’‘Eco di Locarno’ scrisse indignato: “Cinture di sicurezza, che rabbia… Gli svizzero-tedeschi hanno deciso per noi: evviva la democrazia”. A cinque anni dall’entrata in vigore della legge, solo il 35% degli automobili­sti nostrani allacciava la cintura. La statistica fotografa dei ticinesi sostanzial­mente anarchici, o solo dispettosi?

Anche in questo caso va notato come spesso i quesiti federali diventino in Ticino un’occasione per affermare una propria specificit­à. A volte la volontà di distinguer­si e le rivendicaz­ioni regionalis­te riemergono in contesti apparentem­ente inconsueti, come nel caso della votazione sulle cinture di sicurezza. Le urne si trasforman­o così nello strumento per affermare una propria irrinuncia­bile specificit­à, con esiti che alcune volte possono sembrare paradossal­i. In generale, il messaggio veicolato col voto appare quello di una popolazion­e che si sente subordinat­a e trattata – a torto o a ragione – come ‘diversa’. Ancora una volta tornano in gioco quelle specificit­à storiche, linguistic­he, geografich­e e culturali che in una certa misura differenzi­ano il Ticino dal resto della Svizzera. I dati forniti dalla statistica pubblica permettono, per concludere, di evidenziar­e e certificar­e le differenze che convivono all’interno del sistema svizzero (quello del canton Giura sarebbe un altro capitolo interessan­te), come d’altronde è ragionevol­e aspettarsi in un contesto federalist­a, plurilingu­e e multicultu­rale.

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