Genitori elicottero
Troppe parole, poche virtù?
Stai attento! È pericoloso! Non ti sporcare! Così ti fai male!
Quante volte sentiamo questo teatrino da parte di giovani mamme e papà coi loro figli piccoli? Sempre più spesso in realtà. Molti esperti criticano infatti i cosiddetti ‘nuovi genitori’ iper-apprensivi, iperprotettivi verso i loro cuccioli. Negli Stati Uniti li chiamano genitori elicottero, termine creato nel 1969 dallo psicologo Haim G. Ginott nel suo libro Between Parent & Teenager, tornato alla ribalta dagli anni Novanta. È un nuovo modello di interazione genitori-figli: di solito mamme, ma sempre più papà, che si librano o volteggiano (metaforicamente) sopra i figli, osservando ogni loro gesto, controllando ogni loro movimento, aiutandoli in tutto o quasi. Pur agendo in buona fede, credono così di fare il bene dei loro pargoli, ma gli studiosi non la pensano affatto così.
Tipi & stili
Genitori non si nasce ma si diventa, ognuno in base al modello ricevuto nell’infanzia, al proprio carattere, all’estrazione sociale, agli impegni professionali eccetera. “In ogni adulto riverbera l’immagine genitoriale che porta dentro di sé, che deriva dalla sua storia personale, un ‘gruppo interno’ che funziona come un modello cui ispirarsi oppure dal quale distanziarsi”, ci dice per esempio la psicoterapeuta e psicosocioanalista di Lugano Elena Scaffidi. A grandi linee, esistono infatti almeno quattro strategie o modalità parentali (D. Srivastav, M. N. Lal Mathur, 2020).
C’è un primo stile “autorevole” con genitori che “stabiliscono standard elevati e aspettative chiare, usano una disciplina basata su un corretto ragionamento e controllano il comportamento dei loro figli”. Un altro stile è “autoritario”: madre e padre “forniscono ai loro figli direttive restrittive e severe per spingerli a seguire le regole stabilite”, rischiando però di creare nei figli “infelicità, ansia e bassa autostima, insieme a un atteggiamento ribelle e a tratti dipendente”. Un terzo stile è “permissivo”, cioè la “tendenza di permettere ai figli di prendere decisioni da soli anche se non sono abbastanza capaci di farlo”, ma poi i pargoli possono sviluppare “un senso di insicurezza, paura, aggressività e ansia”. Un quarto stile è quello “non coinvolto”: scarsa reattività e poca comunicazione che produce figli “disobbedienti, con scarso autocontrollo, esigenti, scarsa tolleranza alla frustrazione e difficoltà di pianificazione”.
Imparare a fallire
Quello del ‘genitore elicottero’ sembra dunque un quinto stile, ovvero mamme e papà che “non hanno mai permesso ai loro figli di fare errori e li intrappolano nella grotta dello stress” (Hirsch D., Goldberg E., 2020). Per il pioniere Ginott, è una cosiddetta “over-genitorialità in cui i genitori applicano ai loro figli tattiche eccessivamente coinvolte e inappropriate per lo sviluppo”. Sono “eccessivamente concentrati sui loro figli” e “in genere si assumono troppa responsabilità per le esperienze dei loro figli e, in particolare, i loro successi o fallimenti” (Daitch C., 2019). Alla base vi sarebbe sostanzialmente “l’ansia dei genitori per gli esiti negativi che i loro figli potrebbero affrontare”, ma questo non fa che “ostacolare il sano sviluppo fisico e sociale del bambino”: così uno studio del 2013 pubblicato sul Journal of Social
and Clinical Psychology. Concorda anche l’esperta di Lugano: fallimenti e frustrazioni fanno parte di un percorso di crescita ma, avverte Scaffidi, “a volte per i genitori questo pensiero è inconcepibile, e allora ecco che si sostituiscono ai figli per spianare loro la strada, prevenire le difficoltà, redimere i conflitti, forgiare la propria creatura a loro immagine e somiglianza”.
“Traditi dai figli”?
Anche le frustrazioni dei genitori rispetto alla loro vita possono scatenare un’iper-apprensione verso i figli. Un modello ansiogeno che si proietta sulla prole: madri e padri iperprotettivi credono così di placare la loro stessa ansia (Segrin C., et al., 2013; Bayer J., et al., 2006). Oppure, aggiunge Scaffidi, di sopperire alle loro frustrazioni attraverso il pargolo “affinché realizzi ciò che in loro non è potuto essere”. Arrivano così a 40 o 50 anni e magari sono insoddisfatti per vari motivi (vita, lavoro, relazione ecc.), ma avendo una responsabilità genitoriale tendono a ‘guidare’ i figli per realizzare ambizioni infrante o irrealizzate, per esempio negli studi accademici, nello sport, nella carriera ecc. (Segrin C., et al., 2012). Per Scaffidi, infatti, ci sono genitori “sconcertati di fronte alla singolarità del proprio figlio, mai conoscibile fino in fondo”, così madri e padri “appaiono sforniti di strumenti di comprensione per permettere al figlio di svilupparsi secondo la propria natura, di esprimere i propri talenti, per permettersi di essere differenti da chi lo ha messo al mondo”. In sostanza, aggiunge, sono “adulti che si sentono traditi dai figli”.
Se i genitori appartengono a culture simili, di norma condividono gli stessi valori e le stesse credenze, comportandosi in modo simile nell’educazione dei figli; se invece provengono da culture ed eredità familiari diverse, questo può influire sullo stile genitoriale. Benché ancora controversa, la ricerca suggerisce che l’educazione dei figli e l’essere genitore differisce tra l’Occidente e per esempio l’Oriente. Nella cultura asiatica prevarrebbe l’interdipendenza tra genitori e figli, mentre nel mondo occidentale l’indipendenza (Kwon K, et al., 2016). I genitori asiatico-americani darebbero maggiore peso a valori come obbedienza, buone maniere, obbligo sociale e sarebbero più autoritari, nutrirebbero inoltre più aspettative rispetto al successo accademico dei figli. Un modello che nel mondo caucasico-americano, cioè anche europeo, viene considerato come dannoso per la prole ma che, paradossalmente, come accennato, si esercita lo stesso.
Questioni di genere
Uomini e donne non sono mai genitori allo stesso modo (Endendijk J.J., et al., 2016; Crevelin C.C., et al., 2010). Dopo le ‘mamme chiocce’ oggi vediamo i ‘nuovi papà’ che, se da un lato giustamente vogliono partecipare di più all’educazione dei pargoli, dall’altro possono essere o troppo invasivi o instaurare malsani rapporti di amicizia. “I figli non sono più delle mamme”, osserva Scaffidi, “i papà sono entrati nelle vicende scolastiche, nelle diatribe del parco giochi, nella scelta dell’abbigliamento, negli amori adolescenziali dei figli. Sono maschi più presenti e teneri, lontani dall’immagine del padre-padrone, ma a volte troppo invadenti lo spazio del figlio” avverte. Alcuni studi confermano l’esistenza di ‘nuovi padri’ appiccicosi soprattutto con le figlie. Se i maschi tendono a percepire lo stile materno come più premuroso e liberale rispetto a quello paterno, quest’ultimo è sentito come troppo coinvolto e controllante dalle figlie (Kohut H., 1977; Asbrand J, et al., 2017). Resta che il cliché per cui è soprattutto alle mamme che incombe l’educazione dei figli, col rischio di caricarsi di troppe aspettative e quindi di risultare più soffocanti, è ancora presente. Malgrado i ‘nuovi papà’, siamo ancora lontani dalla parità genitoriale (Schiffrin H., et al., 2017).
Conseguenze nefaste
C’è una vasta letteratura che evidenzia le conseguenze negative per i figli di ‘genitori elicottero’. Nei bambini piccoli e pre-adolescenti si parla di “disturbi internalizzati”, affermano due studi pubblicati sul Journal of Applied Developmental Psychology (2006) e sul The International Journal of Mental Health Promotion (2010). Negli adolescenti e nei giovani adulti si osserva invece un “maggiore grado di nevrosi, minore apertura all’esperienza, maggiore dipendenza e ridotto benessere psicologico”, così la rivista Sociological Spectrum (2011). Uno dei traumi più diffusi è l’attacco di panico: oggi colpisce “fino al 35% degli adolescenti”, un tasso enorme, dichiarava nel 2018 a laRegione lo psichiatra ticinese Michele Mattia. A monte vi sarebbero soprattutto “mamme iper-ansiose che vincolano o non permettono ai loro figli l’esplorazione del mondo”, gli faceva eco la psicoterapeuta italiana Sandra Sassaroli. Ma ormai anche i ‘nuovi papà’ ci mettono del loro. Lo suggerisce un caso capitato a San Gallo nel 2016 e finito addirittura in tribunale, riportava la Sonntags Zeitung. Un bimbo di 7 anni è stato obbligato a iscriversi a una scuola speciale perché vittima, secondo gli psicologi che lo seguivano, di ‘genitori elicottero’ incapaci di fare autocritica, in questo caso proprio il padre. Scaffidi elenca tutta una serie di disturbi: dalle “personalità immature e dipendenti” alla “mancanza di passioni”, dalla “supponenza ingiustificata a scuola” a quella “nel mondo del lavoro”, che nell’età adulta e lavorativa può sfociare in futuri “insegnanti incompetenti” e dirigenti “insensibili”.
Quali prospettive?
Commentando il caso di San Gallo, il ricercatore dell’università di Zurigo Jürg Frick è stato chiaro: in Svizzera c’è “un aumento dei bambini ‘curati troppo’”. Esempi? Madri iper-apprensive che li accompagnano sempre a scuola, persino fin dentro le aule, che portano spuntini all’asilo tre volte al giorno, che gli allacciano sempre le scarpe ecc. Ma così, avvertiva Frick, i pargoli “non riusciranno a sopportare l’autorità dei loro capi, svilupperanno un comportamento egocentrico che renderà la loro vita professionale e sociale difficile”. Uno studio longitudinale pubblicato su Developmental Psychology, su 422 bambini di due, cinque e dieci anni di età, conferma la tesi di Frick e sostiene che lo stile ‘genitore elicottero’ “possa influenzare negativamente lo sviluppo della regolazione delle emozioni e del controllo inibitorio dei bambini nella prima infanzia (...) portando a un maggiore disadattamento in tutti i campi sociali, emotivi e accademici” (Perry NB, et al., 2018). Fenomeni sociali come la pedofilia, le dipendenze o il bullismo non fanno che aumentare l’ansia dei genitori, e più sono ansiosi, più rendono ansiosi anche i figli (Frick PJ, et al., 2015). Se è vero che serve più ricerca a lungo termine (Bradley-Geist J. C., Olson-Buchanan J.B., 2014), alcuni campanelli d’allarme ci sono già: il bisogno di approvazione nei social media, la mancanza di stimoli, i cosiddetti ‘Neet’, cioè giovani non impegnati nello studio, né nel lavoro né nella formazione, fino ai frequenti cambi di lavoro.