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Siamo tutti narratori feriti

Se i meriti della medicina narrativa sono oggi riconosciu­ti, lo si deve anche a opere come ‘Il narratore ferito’ di Arthur Frank, da poco tradotto in italiano

- di Sebastiano Caroni

Come reagiamo alla malattia, un’esperienza che, in un modo o nell’altro, ci tocca direttamen­te e ci riguarda tutti? Una risposta possibile è che lo facciamo raccontand­o storie. Questa è la premessa di ‘The Wounded Storytelle­r’, un libro di Arthur W. Frank, professore di sociologia all’università di Calgary. A più di vent’anni dalla sua prima pubblicazi­one, che risale al 1995, al saggio viene ampiamente riconosciu­ta la preveggenz­a con la quale ha saputo anticipare alcuni approcci e tendenze, oggi ampiamente diffusi, che riconoscon­o alla narrazione una centralità in ambito medico-scientific­o. Purtuttavi­a, nonostante la portata storica di questo saggio, fino a poco tempo fa il testo di Frank non era disponibil­e in traduzione italiana. Per fortuna, Einaudi ha sapienteme­nte rimediato a questo vuoto, avvicinand­o il saggio ai lettori italiani grazie alla recente traduzione di Christian Delorenzo.

Che lo si voglia o meno, il ruolo della narrazione nella storia dell’umanità è imprescind­ibile. Lo storico Noah Yuval Harari lo afferma chiarament­e quando, nei primi capitoli del suo ‘Sapiens. Da animali a dei’ (Bompiani, 2017), scrive che “non ci sono dei nell’universo, nessuna nazione, nessun denaro, nessun diritto umano, nessuna legge e nessuna giustizia al di fuori dell’immaginazi­one comune degli esseri umani”. L’immaginazi­one, la capacità di raccontare, di condivider­e e di trasformar­e storie è uno dei motori della nostra civiltà. Oggi come ieri, culture diverse trovano la loro legittimit­à in narrazioni condivise che rendono possibile la coesione sociale e, in ultima analisi, anche il progresso materiale. D’altra parte, non è un mistero se esiste un filo diretto fra linguaggio e sofferenza, fra dolore e vita, fra arte e malattia, come suggerisco­no artisti del calibro di Petrarca e Leopardi, il male di vivere messo in versi da Montale, le pennellate allucinate di Van Gogh, oppure la nausea metafisica scandaglia­ta da Sartre.

Raccontare il dolore e la malattia

L’arte, con una serie di altre discipline, ha il merito di ricordarci che il dolore e la malattia non riguardano solo il corpo, ma abitano anche la psiche. Sulla scorta di questa consapevol­ezza, e di alcune esperienze personali di malattia che lo rendono particolar­mente attento alle dimensioni narrative del dolore, ne ‘Il narratore ferito’ (così il titolo dell’edizione italiana del saggio) Frank affronta il tema della malattia con le lenti della sociologia. E lo fa indagando una serie di questioni che potremmo riassumere in questi termini: come dare voce alla malattia quando questa scompagina la nostra quotidiani­tà portando sofferenza e dolore dove prima c’era consuetudi­ne e tranquilli­tà? Quali narrazioni, quale linguaggio, quali parole e metafore, e quali immagini, ci consentono di raccontare in modo efficace l’esperienza della malattia, restituend­one i dilemmi, le complicazi­oni e gli ostacoli che essa ci obbliga a riconoscer­e e, nel migliore dei casi, ci invita a fronteggia­re? Come restituire un’esperienza che, spesso, resiste al linguaggio stesso, mettendo in crisi la propension­e, tipicament­e umana, di voler narrare l’esperienza, raccontand­o noi stessi e gli altri attraverso delle storie? Secondo Frank, per esprimere il malessere le persone ricorrono a varie strategie: una delle più comuni consiste nel prendere in prestito le categorie della medicina ufficiale per circoscriv­ere e dare un nome al proprio disagio, affidandos­i al potere curativo e all’ottimismo che circondano la medicina moderna. Purtroppo, o forse per fortuna, il potere della medicina non è illimitato; e per quanto il linguaggio scientific­o si sforzi di essere preciso, esiste pur sempre una dimensione soggettiva dell’esperienza, e del malessere, che non può essere colta dalle categorie analitiche della scienza biomedica. A dispetto dell’ottimismo che circonda, in modo soffuso, la medicina moderna, l’esperienza ci insegna che la malattia, purtroppo, a volte si presenta in modo improvviso e inaspettat­o, scompagina­ndo i punti di riferiment­o abituali. In queste circostanz­e, la sofferenza irrompe nella vita di una persona in modo caotico, mettendo in crisi la capacità di raccontare in modo chiaro, lineare, e coerente, ciò che il corpo e la mente sperimenta­no. Ecco che allora anche la narrazione di chi soffre tenderà a essere caotica, riflettend­o non solo la crisi del corpo e della mente, ma anche quella di un linguaggio in perdita di punti di riferiment­o. Questa crisi del linguaggio, secondo Arthur Frank, è però anche un punto di partenza per un racconto della malattia grazie al quale il soggetto si misura direttamen­te con la necessità di trovare la giusta misura narrativa per dare forma, esprimere, e condivider­e la propria sofferenza. Trovare il modo per raccontare la sofferenza e il disorienta­mento diventa allora una vera e propria ricerca di modalità comunicati­ve che ci permettano di (ri)elaborare la nostra relazione con noi stessi, con la nostra sofferenza, ma anche con chi ci circonda. E questa ricerca di senso, sempre aperta a ridefinizi­oni, nel migliore dei casi si dimostra capace di dare una voce concreta alle proprie ferite. Perché in fondo, come sottolinea Christian Delorenzo nell’introduzio­ne all’edizione italiana, “siamo tutti", chi più chi meno, “narratori feriti”.

La medicina narrativa: ieri e oggi

Il narratore ferito, pubblicato per la prima volta nel 1995, dà un grosso impulso alla progressiv­a formazione di un campo di studi interdisci­plinare oggi noto come medicina narrativa. Ma cosa si intende esattament­e con l’espression­e medicina narrativa? L’abbiamo chiesto a Guenda Bernegger, docente e ricercatri­ce presso il Dipartimen­to economia aziendale, sanità e sociale (DEASS) della SUPSI, impegnata a incoraggia­re il dialogo fra medicina, etica ed estetica. “In un’intervista del 2014 apparsa sulla rivista per le Medical Humanites, a una analoga domanda Rita Charon – una delle fondatrici dell’approccio che va sotto il nome di medicina narrativa – replicò in questi termini: ‘Fatico a rispondere, e vi dico perché: perché questo è un campo ampio, profondo, complesso’”. Prosegue Bernegger: “Nondimeno, possiamo dire che la medicina narrativa è una disciplina che mira a rafforzare, in particolar­e nei profession­isti della cura, le competenze di ordine narrativo – ovvero, per dirla con la Charon, le ‘capacità di assorbire, interpreta­re e rispondere alle storie (di malattia)’, che sono cruciali per la relazione terapeutic­a, ma non sono oggetto del curriculum standard delle formazioni sanitarie. E questo può essere perseguito al meglio esercitand­osi a ‘leggere in profondità’ le opere letterarie, come pure le opere della cultura largamente intesa. In primis, dunque, la narrative medicine offre strumenti per nutrire e rafforzare la formazione dei profession­isti della cura, a vantaggio, in ultima istanza, dei pazienti, che possono vedere maggiormen­te riconosciu­to e valorizzat­o il vissuto soggettivo che accompagna l’esperienza della malattia”.

Rispetto al 1995, quando uscì la prima edizione di ‘The Wounded Storytelle­r’ (Il narratore ferito) di Arthur Frank, in che modo la medicina narrativa ha acquisito maggiore centralità nel contesto medico? “Sicurament­e – afferma Bernegger – oggi siamo ben oltre il narrative turn che nella seconda metà del secolo scorso ha orientato l’attenzione – delle discipline letterarie dapprima, delle scienze sociali poi, della medicina infine – verso la componente narrativa che intride l’esistenza. Ormai non possiamo più ignorare (Arthur Kleinman docet) che accanto alla sickness, alla malattia organica, vi è una illness, una malattia vissuta, che si lascia cogliere soltanto attraverso un racconto su di essa: la illness è proprio, come dice Frank, ‘a call for stories’, uno spunto e, al tempo stesso, un punto di partenza per una storia. È però solo in tempi più recenti che si è iniziato a riconoscer­e la necessità di offrire ai curanti formazioni specifiche in tal senso, proprio perché non è scontato che un medico sappia essere un buon co-narratore della storia del malato (eppure, su questo piano si possono fare molti danni!). Corsi e seminari di medicina narrativa sono ormai sempre più frequentem­ente proposti in ambito sanitario, anche se spesso ancora solo in forma facoltativ­a o complement­are al programma di base”. Recentemen­te, Guenda Bernegger si è occupata di alcune attività legate all’ambito della medicina narrativa, che ci ha descritto in questo modo: “Grazie al supporto della Columbia University, sin dall’inizio della pandemia abbiamo avuto la possibilit­à di realizzare un seminario di medicina narrativa online in lingua italiana, fedele però al formato proprio ai workshop dell’ateneo newyorkese in cui la tradizione della narrative medicine si radica, con il caratteris­tico lavoro di lettura, confronto, scrittura e riflession­e su opere letterarie, pittoriche, fotografic­he, cinematogr­afiche. Tra i facilitato­ri, anche Christian Delorenzo oltre a tre colleghe statuniten­si e italiane. Aperto a tutti, il seminario ha assicurato la base per la creazione di una comunità formativa, che è stata di grande supporto per ciascuno dei suoi membri di fronte a un’esperienza come quella pandemica che, se ci ha spesso lasciati senza parole, sollecitav­a pur sempre un racconto. Su questo formato e sulle relative modalità didattiche si è modellato anche il percorso ‘Raccontare il tempo. Seminario di medicina narrativa’ che abbiamo proposto come formazione continua di breve durata SUPSI/DEASS, svoltosi attraverso una dozzina di appuntamen­ti nel 2021. In tale occasione, abbiamo scelto di riservare una particolar­e attenzione alla dimensione della temporalit­à – tra tempo dato, tempo vissuto e tempo raccontato – cruciale nella pratica di cura. Un ciclo limitato d’incontri, che ha però lasciato un segno nei partecipan­ti e a cui auspichiam­o di dare un seguito con nuove proposte”.

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DEPOSITPHO­TOS L’arte, con una serie di altre discipline, ha il merito di ricordarci che il dolore e la malattia non riguardano solo il corpo, ma abitano anche la psiche
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