Giochi di potere a Wimbledon
A Wimbledon piace chiamarsi, semplicemente, The Championships. Non è il suo unico vezzo, lo sappiamo. Il dress code bianco sacerdotale, le fragole con la panna, le cravatte regimental. È proprio l’insieme di queste piccole ritualità ad aver convinto gli inglesi ad avere il più grande torneo di tennis al mondo. Il miglior compromesso possibile – molto britannico – fra tradizioni secolari ed esigenze contemporanee, fra spirito aristocratico e logiche d’intrattenimento. Lo hanno raccontato così tanto da convincere tutti: Wimbledon è diventato una specie di quintessenza mistica del tennis, lontana dagli impacci terreni degli altri tornei. Una delle conseguenze del fascino di Wimbledon è il suo potere, grazie al quale può permettersi di fare più o meno quello che vuole. Un paio di mesi fa ha annunciato che – in seguito all’invasione dell’Ucraina – i tennisti e le tenniste russi e bielorussi non sarebbero stati ammessi al torneo. Una decisione che nasce probabilmente nelle aule del governo britannico. Wimbledon è stato usato come strumento diplomatico e la cosa non dovrebbe stupirci. Lo sport esercita un’influenza politica creata dal suo seguito di massa. Per uno sport individuale come il tennis, però, la sanzione è problematica dal punto di vista etico: i tennisti vivono in un circuito sparso fra trenta nazioni, risiedono lontani dal loro Paese. Che utilità ha punirli, anche solo simbolicamente? In che misura, nello sport individuale, un atleta compete per la nazione che rappresenta?
Atp e Wta, le due maggiori organizzazioni tennistiche, sono di fatto dei sindacati: non potevano accettare una discriminazione individuale di quel tipo, ma l’unica cosa che hanno potuto fare è stato revocare i punti del ranking. Una decisione che complica la vita soprattutto ai tennisti col ranking più basso che hanno molti punti da difendere. La questione, soprattutto, ha fatto esplodere le contraddizioni di uno sport privo di un governo unitario. Il potere è frammentato fra giocatori, tornei e media. Non esiste nessuna organizzazione capace di regolare il potere fra questi interessi particolari. Che Wimbledon aspettarci, allora? Naomi Osaka ha detto che senza punti le sembra più che altro un’esibizione, ma è in minoranza. Nadal proverà a giocare sottoponendosi ad altre infiltrazioni, accettando di mandare ulteriormente in pezzi il proprio corpo pur di proseguire il sogno del Grande Slam. Per lui, come per la maggioranza dei giocatori, il ranking è solo una motivazione accessoria per partecipare a un torneo come Wimbledon: si gioca per i soldi e soprattutto si gioca per la gloria. Andrea Gaudenzi, chairman della Atp, ripete spesso quanto il tennis avrebbe bisogno di un governo unitario, ma l’impressione è che ai grandi tornei non interessi. Per questo sta modellando un circuito che provi a intaccare il loro potere, allungando per esempio due Master 1000 come Roma e Madrid.
La grandezza del tennis, però, si regge su un ecosistema culturale costruito in secoli di storia. Sono i tornei a dare importanza ai giocatori, benché tendiamo spesso a pensare il contrario. Come dichiarato da Rafael Nadal in occasione dell’esclusione di Djokovic dagli Australian Open: “Non c’è nessun tennista che può essere più grande di un torneo. I giocatori passano, i tornei restano”.