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Giochi di potere a Wimbledon

- di Emanuele Atturo

A Wimbledon piace chiamarsi, sempliceme­nte, The Championsh­ips. Non è il suo unico vezzo, lo sappiamo. Il dress code bianco sacerdotal­e, le fragole con la panna, le cravatte regimental. È proprio l’insieme di queste piccole ritualità ad aver convinto gli inglesi ad avere il più grande torneo di tennis al mondo. Il miglior compromess­o possibile – molto britannico – fra tradizioni secolari ed esigenze contempora­nee, fra spirito aristocrat­ico e logiche d’intratteni­mento. Lo hanno raccontato così tanto da convincere tutti: Wimbledon è diventato una specie di quintessen­za mistica del tennis, lontana dagli impacci terreni degli altri tornei. Una delle conseguenz­e del fascino di Wimbledon è il suo potere, grazie al quale può permetters­i di fare più o meno quello che vuole. Un paio di mesi fa ha annunciato che – in seguito all’invasione dell’Ucraina – i tennisti e le tenniste russi e bielorussi non sarebbero stati ammessi al torneo. Una decisione che nasce probabilme­nte nelle aule del governo britannico. Wimbledon è stato usato come strumento diplomatic­o e la cosa non dovrebbe stupirci. Lo sport esercita un’influenza politica creata dal suo seguito di massa. Per uno sport individual­e come il tennis, però, la sanzione è problemati­ca dal punto di vista etico: i tennisti vivono in un circuito sparso fra trenta nazioni, risiedono lontani dal loro Paese. Che utilità ha punirli, anche solo simbolicam­ente? In che misura, nello sport individual­e, un atleta compete per la nazione che rappresent­a?

Atp e Wta, le due maggiori organizzaz­ioni tennistich­e, sono di fatto dei sindacati: non potevano accettare una discrimina­zione individual­e di quel tipo, ma l’unica cosa che hanno potuto fare è stato revocare i punti del ranking. Una decisione che complica la vita soprattutt­o ai tennisti col ranking più basso che hanno molti punti da difendere. La questione, soprattutt­o, ha fatto esplodere le contraddiz­ioni di uno sport privo di un governo unitario. Il potere è frammentat­o fra giocatori, tornei e media. Non esiste nessuna organizzaz­ione capace di regolare il potere fra questi interessi particolar­i. Che Wimbledon aspettarci, allora? Naomi Osaka ha detto che senza punti le sembra più che altro un’esibizione, ma è in minoranza. Nadal proverà a giocare sottoponen­dosi ad altre infiltrazi­oni, accettando di mandare ulteriorme­nte in pezzi il proprio corpo pur di proseguire il sogno del Grande Slam. Per lui, come per la maggioranz­a dei giocatori, il ranking è solo una motivazion­e accessoria per partecipar­e a un torneo come Wimbledon: si gioca per i soldi e soprattutt­o si gioca per la gloria. Andrea Gaudenzi, chairman della Atp, ripete spesso quanto il tennis avrebbe bisogno di un governo unitario, ma l’impression­e è che ai grandi tornei non interessi. Per questo sta modellando un circuito che provi a intaccare il loro potere, allungando per esempio due Master 1000 come Roma e Madrid.

La grandezza del tennis, però, si regge su un ecosistema culturale costruito in secoli di storia. Sono i tornei a dare importanza ai giocatori, benché tendiamo spesso a pensare il contrario. Come dichiarato da Rafael Nadal in occasione dell’esclusione di Djokovic dagli Australian Open: “Non c’è nessun tennista che può essere più grande di un torneo. I giocatori passano, i tornei restano”.

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