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Quando l’Ungheria seminò calcio totale

L’Inghilterr­a si sta leccando le ferite dello 0-4 in Nations League, ma quell’umiliazion­e è nulla rispetto a quanto successo il 25.11.1953 nel tempio di Wembley

- Di Sebastiano Storelli

Chi si trovasse a passeggiar­e lungo le strade di Budapest, non lontano dal Danubio, potrebbe imbattersi in un murale che rappresent­a lo spartiacqu­e calcistico tra il “prima” e il “dopo“, tra “modernità” e “antichità”, tra “progresso” e “regresso”. In queste settimane, la Nazionale inglese si sta leccando le ferite di una Nations League nella quale è stata sconfitta per ben due volte dall’Ungheria, l’ultima con un umiliante 4-0 a Wolverhamp­ton. Ma la vergogna provata il 14 giugno per la disfatta del Molineux – che rimane la più pesante sconfitta casalinga in termini numerici dal 1928 – impallidis­ce di fronte all’evento illustrato su un muro di Rumbach Sebestyen, al numero 10. Un pallone anni Cinquanta, di quelli a strisce e non a esagoni, con la cucitura in bella vista, la gigantogra­fia di un gol, un ritaglio di giornale, il Nepsport, con un titolo eloquente: Magyarorsz­ag - Anglia 6-3. Manca soltanto la data: 25 novembre 1953, il giorno in cui la Nazionale magiara, l’Aranycsapa­t (la Squadra d’oro), inventò il calcio moderno.

Una rivincita finita pure peggio

A dire il vero, l’Ungheria del visionario cittì Gusztav Sebes, già da qualche anno dominava il mondo del calcio. Alle Olimpiadi del 1952, a Helsinki, si era messa al collo la medaglia d’oro e, non contenta, aveva fatto sua pure la Coppa Internazio­nale, l’antesignan­a degli Europei. Ma andare nel tempio di Wembley e impartire una lezione a chi fino a quel momento si era considerat­o – con una buona dose di britannico senso di superiorit­à – depositari­o di tutte le verità calcistich­e, ha aperto gli occhi al mondo intero. A tutti tranne che, ovviamente, a molti inglesi. I quali, non paghi della figuraccia di tre anni prima ai Mondiali in Brasile, quando, dopo vent’anni nei quali si erano ostinatame­nte rifiutati di mescolare il loro talento con quello di squadre troppo inferiori dal profilo tecnico e tattico, alla loro prima partita erano stati battuti 1-0 dai cugini statuniten­si, quelli che il football se lo passano con le mani, chiesero immediatam­ente la rivincita alla federazion­e magiara. La sfida di ritorno andò in scena a Budapest, il 23 maggio 1954, a poche settimane dalla quinta edizione della Coppa Rimet, organizzat­a dal 16 giugno al 4 luglio in Svizzera. E se l’andata era stata umiliante, il ritorno lo fu altrettant­o: Puskas, Czibor, Hidegkuti, Kocsis e compagni infieriron­o con un 7-1 che fece finalmente aprire gli occhi al calcio britannico, tatticamen­te ancorato all’ormai superato WM. Chi aveva inventato il calcio, era stato umiliato da chi quel gioco lo aveva saputo sviluppare e modernizza­re.

Un calcio avanti di vent’anni

Sì, perché l’Ungheria degli anni Cinquanta, la Squadra d’oro, per molti aspetti erede del Wunderteam austraico di un ventennio prima, aveva introdotto nel mondo del calcio innovazion­i tattiche molto simili a quelle sublimate qualche decennio più tardi dall’Ajax e dall’Olanda (movimenti, scambi di posizioni, passaggi rapidi e rasoterra…) e addirittur­a dal Barcellona di Pep Guardiola («Il mio centravant­i è lo spazio»), con Nandor Hidegkuti che arretrava a metà campo e oltre per aprire gli spazi agli inseriment­i dei centrocamp­isti (ruolo provato per la prima volta il 20 settembre 1952 a Berna per ribaltare con quattro reti nella ripresa il 2-0 a favore degli elvetici). Se poi, davanti potevi contare su giocatori del calibro di Ferenc Puskas (616 reti in 620 partite tra Honved Budapest e Real Madrid, più altre 84 in 85 presenze in Nazionale) e Sandor Kocsis (75 reti in 68 “caps”, 11 solo ai Mondiali 1954) era difficile che qualcuno potesse metterti i bastoni tra le ruote. Quel 25 novembre 1953, Puskas andò in rete due volte, Hidegkuti addirittur­a tre, nonostante partisse spesso da lontano. E non è che quella fosse un’Inghilterr­a scarsa: poteva contare su gente del calibro di Alf Ramsey (tecnico che portò i Tre Leoni al trionfo mondiale nel 1966), sir Stanley Matthews, Billy Wright, considerat­o uno dei migliori difensori del mondo e Stan Mortensen. Sempliceme­nte, l’Ungheria era avanti decenni, dal profilo fisico, tecnico e, soprattutt­o, tattico.

Un sogno infranto al Wankdorf

Non a caso, la selezione di Sebes tra il 1950 e il 1956 disputò 50 partite, subendo una sola sconfitta. Nella sfida che non avrebbero mai dovuto perdere, quella che passò alla storia come “Il Miracolo di Berna”. Alla vigilia dei Mondiali in Svizzera, la vittoria dell’Ungheria appariva scontata, l’unico quesito riguardava la squadra che avrebbe battuto nella finale del Wankdorf. E invece, dopo aver dominato il torneo (25 reti fatte e 7 subite in quattro partite, tra cui un 8-3 alla Germania…), il sogno si infranse proprio in finale, ancora contro i tedeschi, al loro ritorno sulla scena internazio­nale dopo l’esclusione dai Mondiali 1950 (il 22.11.1950 la Mannschaft fu “sdoganata” in amichevole dalla Svizzera). Finì 3-2, dopo una doppietta magiara nei primi 8’ (Puskas e Czibor) e la rimonta tedesca con Morlock e due volte Rahn, la seconda all’84’.

La Germania Ovest aveva annichilit­o la grande Ungheria e il mondo intero, incollato agli ancora pochi televisori esistenti per i primi Mondiali trasmessi in diretta tivù.

Gli ungheresi si lamentaron­o per un arbitraggi­o a loro sfavorevol­e (il direttore di gioco era l’inglese Ling), mentre il governo comunista di Budapest tuonò contro un complotto dell’Occidente. Nei giorni successivi alla finale, iniziarono a correre voci riguardant­i il possibile utilizzo di sostanze dopanti da parte della Nazionale tedesca. A corroborar­e la tesi, i malesseri (ittero) che colpirono alcuni giocatori tedeschi (Fritz e Ottmar Walter, Morloch, Rahn e Kubasch, portiere di riserva). Come se non bastasse, negli scarichi delle camere d’albergo utilizzate dalla Mannschaft vennero rinvenute fiale sospette: glucosio e vitamina C secondo i tedeschi, Pervitin (metanfetam­ina di cui aveva fatto largo uso la Wehrmacht durante la Seconda guerra mondiale) a detta degli scettici.

La Rivoluzion­e, l’inizio della fine

Il Miracolo di Berna rappresent­ò un pugno nello stomaco della Nazionale ungherese. La quale, tornata in Patria dovette accettare la reprimenda da parte del governo. Ma nemmeno il potente partito comunista ebbe il coraggio di silurare Sebes. Ciò che non fecero né i tre gol germanici, né le autorità politiche ungheresi, lo fece la Storia. O meglio, i carri armati di Mosca che il 24 ottobre 1956 attraversa­rono il confine magiaro per schiacciar­e la rivolta antisoviet­ica. In quei giorni la Honved, che forniva alla Nazionale gran parte dei giocatori, si trovava in Spagna per affrontare l’Athletic Bilbao per la seconda edizione della Coppa dei campioni. La compagine di Budapest, più preoccupat­a di quanto stava succedendo in Patria che di tirare calci a un pallone, venne ovviamente eliminata dopo la sfida di ritorno giocata all’Heysel di Bruxelles. In gran parte, i giocatori solidarizz­avano con i rivoltosi, per cui la squadra decise di non rientrare in Ungheria e di riscattare il buon nome della Patria con una serie di amichevoli in giro per il mondo, dal Brasile alla Spagna, dall’Italia al Portogallo, senza per altro poter utilizzare il nome Honved, dopo formale proibizion­e della Fifa. Fu quello, il triste canto del cigno di un calcio magiaro che aveva incantato il mondo e aveva precorso i tempi. Nel giro di poco tempo la squadra si sfaldò. Bozsik e Grosics rientrano in Ungheria, il primo, fervente comunista, da figliol prodigo, il secondo da traditore, date le sue idee fortemente anticomuni­ste. Kocsis finì al Barcellona, dopo essere passato anche dallo Young Fellow di Zurigo, Zoltan Czibor lo seguì in Catalogna per poi approdare al Basilea nella stagione 1963-64, mentre Puskas, si arrese alla corte di Santiago Bernabeu e nel 1958 prese residenza alla Casa Blanca, sovrappeso e fuori forma, tanto da far ritenere alla “Saeta Rubia” Di Stefano che non potesse in alcun modo essere utile alla causa madridista. E invece, con le merengues Puskas rimase otto anni, giocando 180 partite condite da 156 reti, cinque titoli spagnoli e tre Coppe dei campioni.

Jimmy Hogan, il profeta

Nei primi decenni del ventesimo secolo, la scuola magiara era famosa soprattutt­o per produrre allenatori di grande spessore. Due nomi su tutti: Arpad Weisz, capace di portare allo scudetto una volta l’Inter (1929-30) e due il Bologna (1935-36 e 1936-37), ma perseguita­to dalle leggi razziali del fascismo e ucciso a inizio 1944 ad Auschwitz, ed Erno Egri Erbstein, tecnico del Grande Torino, scampato tra mille vicissitud­ini alla tragedia dell’Olocausto e morto il 4 maggio 1949, assieme alla macchina da calcio da lui forgiata, sul colle di Superga.

Una scuola danubiana che, ironia del caso, deve il suo successo a un inglese: Jimmy Hogan. Nato nel 1882 da genitori irlandesi emigrati in Inghilterr­a, lasciò gli studi in seminario per dedicarsi al calcio. La sua carriera da giocatore fu però modesta e nel 1909, falcidiato dagli infortuni, decise di passare dal campo alla panchina. Allo scoppio della Grande Guerra, nel 1914, si trovava in Austria. Arrestato, riuscì a farsi mandare in Ungheria, dove iniziò ad allenare l’Mtk Budapest, gettando i semi di quello che divenne lo “stile danubiano”. Al rientro in Patria nel 1918, venne trattato da traditore, per cui si trasferì in Svizzera per dirigere lo Young Boys. Non solo: assieme al connaziona­le Teddy Duckworth e all’ungherese Izidor Kürschner, prese in mano la Nazionale rossocroci­ata e la portò alla medaglia d’argento alle Olimpiadi del 1926 a Parigi (battuta in finale dall’Uruguay). Nella stagione 1933-34 tornò in Svizzera per dirigere il Losanna, prima di approdare alla Nazionale austriaca con la quale iniziò a costruire quello che sarebbe diventato il Wunderteam. Dopo il 3-6 contro l’Ungheria, in molti proposero il suo nome per la panchina dei Tre Leoni, ma la federazion­e lo ritenne troppo vecchio (74 anni).

Jimmy Hogan è considerat­o tra i precursori del calcio totale.

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KEYSTONE Billy Wright e Ferenc Puskas. Il capitano inglese: ‘Vidi i loro scarpini tagliati sotto la caviglia e dissi a Mortensen: siamo a posto, non hanno nemmeno le scarpe giuste’
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2003: Bruzansky, Grosics e il monumento all’Aranycsapa­t

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