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L’inquietant­e Milano di Giorgio Scerbanenc­o

Era la ‘sua’ città, quella di ‘Traditori di tutti’, una scrittura dinoccolat­a come la figura dello scrittore, e che non somiglia a nessun’altra

- di Marco Stracquada­ini

Ogni giovedì, per tutta l’estate a partire da oggi, un classico della letteratur­a gialla.

“Ca’ Tarino fa parte di Romano Banco, che è una frazione di Buccinasco, che è un comune vicino a Corsico, che è vicino a Milano, praticamen­te è sempre Milano”. Giorgio Scerbanenc­o divenne famoso per la ‘sua’ Milano, e una certa Milano si fece famosa, attraente o inquietant­e grazie ai romanzi di Scerbanenc­o. ‘Sua’ tra virgolette perché era di padre ucraino e madre romana, e visse fino a sedici anni a Roma.

Sei fai conto di non aver letto un solo giallo in vita tua, ne leggi uno di Scerbanenc­o e noti per prima cosa lo squallore. Ambiente, voci, parole non finte, o meglio non false rispetto all’argomento. Tutto è finzione quando diventa scrittura, ma c’è la falsa e la vera. La reale conquista, per la letteratur­a italiana degli anni Sessanta, è il territorio dello squallido urbano che mancava ancora ovunque e perfino nei gialli, che si muovono in sordidi ambienti. Tale virata si deve a lui. Duca Lamberti, protagonis­ta degli ultimi quattro romanzi, nasce singolare non solo nel nome. Ex medico radiato dall’ordine per eutanasia, indolente e solerte, dubbioso e risoluto, in Traditori di tutti si ritrova una valigetta con dentro un mitra, e due morti, poi un altro, poi un altro tutti finiti nel Naviglio. Poi un altro ancora… La valigetta gliela lascia una donna, tornerà qualcuno a prenderla, lui nel frattempo, visto che è un medico, dovrà ‘ripristina­re’ la verginità di lei che sta per sposarsi. Traffico d’armi e prostituzi­one, forse terrorismo, droga. Una catena di misfatti, malfattori e malfattric­i che Duca Lamberti andrà tirando verso di sé, con l’esca della valigetta, stimolando da ognuno il tradimento di tutti. Scerbanenc­o soffriva di non essere preso per italiano. Cambia con una ‘c’ la ‘k’ del cognome, italianizz­a il secondo nome e lo sceglie come primo. Dopo vari lavori tutti improbabil­i, fresatore, magazzinie­re, barrellier­e, contabile, arriva ai settimanal­i Rizzoli: codirettor­e, responsabi­le delle rubriche di lettere, inizia a pubblicare romanzi a puntate. Romanzi rosa già con decise pieghe di giallo e di nero. Ma non far finire male un romanzo lo fa soffrire. Lo racconta Oreste Del Buono. Un romanzo rosa deve finire bene. E a un certo punto si stanca e nasce, con Duca Lamberti, ‘Venere privata’. È il 1966 e ha 55 anni. Quello stesso anno esce ‘Traditori di tutti’. È l’inizio della nuova unilateral­e carriera – quella vera e interament­e nera – che si interrompe­rà, per la morte, dopo soli tre anni e due romanzi. “Il profano – scrive – pensa che l’ispirazion­e sia qualche cosa di magico che chi scrive deve star lì ad aspettare (…) Ma non è così. Si scrive quando si vuole, e l’ispirazion­e, forse, non esiste. Come in tutte le cose, bisogna soltanto aver voglia di scrivere (…) Non è l’ispirazion­e che manca al poeta che guarda il cielo azzurro, è la voglia (…) A me piace scrivere. Ho scritto da per tutto, e nelle condizioni meno confortevo­li. Non mi occorre né solitudine né silenzio né scrivanie speciali. L’unica cosa di cui ho bisogno è la macchina per scrivere – una qualsiasi, anche la più scassata – perché voglio vedere subito chiaro e ben allineato quello che scrivo”.

Un talento feroce per la scrittura e un’esperienza del mondo maturata sulla conoscenza della cronaca e sulla propria vita. Capacità di osservazio­ne e amore del dettaglio, curiosità onnivora, spregiudic­atezza in ogni campo, inclusa quella verso il protagonis­ta dei suoi ultimi e maggiori romanzi, del quale non si innamora. Distacco, gioco (sempre feroce) e disinvoltu­ra anche verso la propria scrittura, che nasce e resta com’è quasi senza correzioni. Manca qualcosa per fare un vero scrittore, ma lui ce l’ha: coraggio e compassion­e, impietosit­à e pietà, amore-dolore per la vita con quello che c’è dentro.

Così è anche in ‘Traditori di tutti’. Una scrittura dinoccolat­a come la figura dello scrittore, e che non somiglia a nessun’altra. Una Milano vista di scorcio correndo in macchina, complice e insieme distante da ciò che vede accadere, colta di sorpresa da una smagliante primavera.

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Coraggio e compassion­e, impietosit­à e pietà, amore-dolore per la vita

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