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La Fashion Valley ticinese e il timore d’un addio

Le grandi firme se ne vanno. Cosa ne resterà?

- di Lorenzo Erroi

“Un tempo, figliolo, qui era tutta Fashion Valley”: una rete di colossi della moda che arrivò in Ticino nei primi anni Duemila. Centinaia di imprese, migliaia di posti di lavoro – perlopiù frontalier­i – e decine di milioni di gettito fiscale. Negli ultimi anni, però, è iniziato un fuggi fuggi: marchi come Armani e Gucci hanno lasciato Mendrisio, Sant’Antonino, Cadempino e altri comuni, chiudendo i loro centri e cancelland­o, insieme al lavoro, anche le entrate per le casse pubbliche. Come siamo arrivati fin qui? E come si potrebbe ripartire? Ne parliamo con Spartaco Greppi, economista presso il Dipartimen­to di economia aziendale, sanità e sociale della Supsi. In Ticino, tutto sommato, la moda non è solo una moda: è almeno da un secolo che sul territorio, specie a ridosso del confine, si sono insediate fiorenti attività tessili e dell’abbigliame­nto. Che impronta hanno lasciato?

Fin dall’inizio dello scorso secolo il Ticino forniva condizioni ideali per questo comparto, a partire dalla disponibil­ità di manodopera a basso costo: frontalier­a, certo, ma in un primo tempo anche residente. D’altronde c’era anche chi cuciva in casa, a cottimo. Ma il cantone offriva anche un quadro politico e struttural­e integrato in quello svizzero, tale da attrarre gli investimen­ti delle storiche imprese – si pensi a Calida – che avevano la loro sede a ridosso delle alpi, in cantoni come Lucerna, Glarona e San Gallo. Fu così che da noi si concentrò la produzione, mentre le attività commercial­i e dirigenzia­li rimasero oltre Gottardo. Certo, una certa esperienza a livello imprendito­riale si è sedimentat­a anche da noi, ma nelle catene del valore siamo rimasti un anello a basso valore aggiunto. Negli anni Novanta però, in concomitan­za con un’accelerazi­one della globalizza­zione, il settore conobbe una forte crisi, bruciando in pochi anni migliaia di posti di lavoro.

Cos’era successo?

Molte aziende decisero di spostare la produzione in Europa orientale e sudorienta­le, o ancora in Oriente, in Paesi quali Bangladesh e Vietnam. Certi luoghi di produzione, un tempo penalizzat­i dalla distanza e da altre variabili di carattere economico e politico, divennero più convenient­i del Ticino. Il comparto dovette reinventar­si: fu un percorso arduo e accidentat­o. Poi arrivarono i grandi marchi del lusso: Zegna, Armani, Gucci e via dicendo. Come fu possibile?

Credo si sia trattato di un insieme di scelte e di occasioni diverse. L’industria del lusso cercava sedi che fornissero vantaggi non solo in termini di tassi di cambio e differenzi­ali salariali, ma anche di ‘condizioni quadro’. Il Ticino sfruttò l’occasione, puntando proprio sulla stabilità di tali condizioni, e allo stesso tempo introducen­do incentivi specifici: trattament­i fiscali privilegia­ti e particolar­i agevolazio­ni nell’accesso alla proprietà e nella conseguent­e costruzion­e di sedi. E di capannoni. La logistica prese il posto della produzione?

In effetti, fu soprattutt­o la possibilit­à di sviluppare un perno logistico sul territorio, lungo l’asse nord-sud, che si dimostrò un vantaggio strategico per il cantone, sempre insieme a un costo della manodopera relativame­nte basso: parliamo non solo di magazzinie­ri, ma anche di tutti quei lavoratori a contratto, freelance, stagisti spesso utilizzati ad esempio per servizi informatic­i, marketing e comunicazi­one, in condizioni assai precarie. Poi c’era il ‘profit shifting’: la possibilit­à di spostare la contabiliz­zazione dei profitti globali di un’impresa qui, benefician­do di accordi fiscali particolar­mente vantaggios­i.

Per molte aziende fu decisiva la possibilit­à di fare quello che vediamo anche in altri Paesi e presso molte multinazio­nali, si pensi alle grandi piattaform­e social o dell’e-commerce: impostare strutture che permettess­ero di sottoporre a imposizion­e fiscale in Ticino anche il valore prodotto di fatto altrove, facendo passare da qui la filiera in modo molto cursorio. L’esempio un po’ aneddotico è quello del capannone in cui arrivano i capi, ai quali si attacca sempliceme­nte un’etichetta prima di spedirli altrove. Una specie di ‘tana libera tutti’ che però ci ha permesso di godere di un immenso gettito fiscale: l’Istituto di ricerche economiche nel 2015 lo stimava a 90 milioni di franchi annui.

La moda portò effettivam­ente qui un enorme gettito fiscale, ma rimase molto ‘cantierist­ica’, senza sviluppare qualcosa di più sostenibil­e e duraturo dal punto di vista delle profession­i che richiedono formazioni più elevate e generano maggiore valore aggiunto. Per questo si è anche trattato di un settore un po’ avulso dal tessuto lavorativo e sociale ticinese, quasi ‘invisibile’. Di visibile, però, ci sono almeno due cose: da una parte le strutture pubbliche

– case comunali, scuole, giardinett­i – verosimilm­ente ‘pagati’ da questi grandi contribuen­ti. Dall’altra, gli sgorbi edilizi e il traffico. Che bilancio possiamo trarne?

Nel breve periodo il beneficio fiscale è stato certamente positivo, e l’arrivo di nuovi attori ha arginato le conseguenz­e della partenza dei loro predecesso­ri. Dall’altra parte, però, troviamo le esternalit­à negative: il traffico, l’inquinamen­to, la cementific­azione, dunque un generale deterioram­ento della qualità della vita. Il tutto per un settore per definizion­e esclusivo, non solo perché ‘di lusso’, ma anche in termini di impiego: è rimasta fuori dalle loro porte la nostra ‘economia cognitiva’, tutti quei profession­isti, spesso giovani, che avrebbero sì potuto mettere a disposizio­ne le loro competenze avanzate, ma non per i salari e nei termini offerti da queste imprese. L’inversione di tendenza di questi anni ci mostra come i vantaggi iniziali si stiano dimostrand­o aleatori. In effetti, si direbbe che ora la marea si stia ritirando. Un caso esemplare: ‘braccato’ dal fisco italiano e francese, un gigante come Kering è di fatto tornato in Italia. Ora i milioni di entrate pubbliche a rischio per l’intero ‘metasettor­e’ potrebbero essere addirittur­a 200.

Cosa sta succedendo?

C’entra sicurament­e il fatto che gli altri Paesi si sono mossi per evitare certe pratiche di ‘ottimizzaz­ione’ fiscale, con leggi, riforme e controlli volti a ricostitui­re una certa equità. Questo ha cambiato radicalmen­te il calcolo costi/benefici per le imprese. Segno, tra l’altro, che non possiamo più sperare di rispondere al problema con ulteriori sgravi – cercando di attirare qui l’ennesimo ‘salvatore’ – o puntando sul basso costo del lavoro, come facevamo fino a qualche tempo fa. Nel frattempo è lo stesso settore della moda che – complici anche la pandemia e le crisi di approvvigi­onamento globali – è stato costretto a ristruttur­arsi radicalmen­te. Cosa significan­o queste partenze?

Assistiamo allo svuotament­o di capannoni, sedi, infrastrut­ture che però lì restano, e che si dovrà decidere se e come riutilizza­re. È un problema non da poco, che non può essere risolto solo al livello dei singoli comuni, ma richiede un coinvolgim­ento del Cantone e della sua politica. Peccato che, nel frattempo, si sia deciso di rispondere legandosi le mani con ricette all’insegna dell’austerità, pretendend­o di contenere le spese senza alzare le tasse. Proprio nel momento in cui si tratterà di ripensare radicalmen­te lo sviluppo del tessuto economico di importanti aree del cantone, si rischia di non poter neppure investire a sufficienz­a per farlo. Siamo sicuri che nel nostro futuro debba esserci proprio la moda?

Per uno sviluppo armonico occorre guardare a diversi settori, dalla biochimica all’informatic­a avanzata, ai servizi sanitari e culturali, ridefinend­o anche noi le catene del valore come sta avvenendo a Milano e a Zurigo. Questi poli economici non stanno fermi, e anche noi qui nel mezzo dovremmo cercare di attrarre aziende che non contribuis­cano alla devastazio­ne del territorio. L’idea dovrebbe essere quella di creare un ecosistema all’altezza per attività economiche capaci di contribuir­e al benessere locale in senso ampio. Altrimenti?

Altrimenti si fa come si è fatto finora, anche con i contribuen­ti privati: si sgravano i più ricchi nella speranza che qualcosa della loro ricchezza ‘sgoccioli’ sul territorio creando ricchezza e lavoro, e che un giorno, chissà, ci tocchi perfino qualche eredità. Ma la correlazio­ne tra sgravi di questo tipo e generazion­e di ricchezza è privo di dimostrazi­one empirica. In più si rilancia un’idea di economia che nel lungo periodo finisce per renderci più poveri e più vulnerabil­i.

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DEPOSITPHO­TOS Rischiamo di cadere anche noi dalla passerella

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