laRegione

Il preside e l’allibrator­e

- di Lorenzo Erroi

Un preside con lo sguardo corrucciat­o, che si massaggia il viso con una mano mentre contempla la pagella dell’alunno somaro che ha di fronte. Sospira, fissa lo sguardo in quello del poveretto ed esordisce con tono un po’ severo, un po’ dispiaciut­o: “Guardi, non so neanche da che parte cominciare…”. Lo si immagina più o meno così, l’ispettore del lavoro che nei giorni scorsi ha comunicato il suo rapporto a una delle aziende del ‘sistema Tisin’, la sgangherat­a chimera sindacal-padronale tirata su l’anno scorso per aggirare la nuova legge sul salario minimo.

Le tre paginette di conclusion­i contengono quello che possiamo pacatament­e definire un immane cazziatone. All’associazio­ne paraleghis­ta si contesta di non potersi qualificar­e come partner sociale, data una rappresent­atività “parecchio lacunosa” e il fatto di avere solo un centinaio di affiliati “in non meglio precisati settori economici”. All’azienda invece si dice chiaro e tondo che deve applicare il salario minimo e che la concertazi­one non si fa così: non si può mettere in mano un contratto già pronto ai lavoratori, firma e taci; non si può avere la direzione schierata lì davanti mentre i poveretti sono chiamati a esprimersi per alzata di mano; non li si può neanche ricattare con la minaccia “o così, o chiudo”. La conclusion­e del Signor preside è chiara: “Abuso di diritto”.

Si chiude dunque – salvo improvvidi ricorsi – il mesto spettacoli­no d’un sindacato sorto per partenogen­esi dalla fervida mente leghista. Certo, resta la sua reincarnaz­ione sotto altro nome e senza più i politici, ma insomma: è ragionevol­e prevedere che anche il ‘Sindacato libero della Svizzera italiana’, libero com’è soprattutt­o da qualsiasi credibilit­à, vada verso la bocciatura. Il che è ovviamente positivo, specie in un contesto difficile come quello ticinese, segnato dal dumping e da certi soggetti che paiono gli allibrator­i d’un ippodromo di provincia. Non sarà poi il salario minimo a guarire il cantone da tutti i suoi acciacchi, ma intanto sappiamo una volta per tutte che questi giochini delle tre carte sono illegittim­i e sanzionabi­li.

Adesso che la questione è (quasi) risolta dentro le fabbriche, però, non sarebbe male sentire qualche cinguettìo anche dalla politica. Perché ai vertici di TiSin non c’erano due rappresent­anti qualsiasi: Boris Bignasca è capogruppo leghista in Gran Consiglio, è a sua volta imprendito­re – alla faccia del conflitto d’interessi rispetto al ruolo ‘sindacale’ – ed è figlio del mitico fondatore del partito. Sabrina Aldi è la sua vice, è avvocata e siede nella Commission­e Giustizia e Diritti. Il mese scorso i due si sono sfilati dal sindacato alla chetichell­a, senza dir nulla e sperando che nessuno se ne accorgesse (li sgamammo in un paio d’ore leggendo il Foglio Ufficiale, una cosa imbarazzan­te perfino per noi giornalist­i). Ecco: da quella politica lì – quella del ‘prima i nostri’ ma poi aiutiamo i padronazzi a spremere i frontalier­i, del patriottis­mo come belletto per nascondere certi maneggi – vorremmo sapere se si ritenga ancora legittimat­a e credibile. Dopotutto anche la Lega aveva votato la legge sul salario minimo che poi ha cercato di schivare, il che fa venire qualche dubbio sul rispetto di certi doveri di rappresent­anza, se non proprio di coerenza. Chissà poi fino a quando certe cose continuera­nno a sembrare normali. Povero preside.

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