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‘Sacro e profano’ di Mario Botta

L’architetto ticinese è stato invitato a presentare una sintesi della sua ricerca progettual­e al MAXXI di Roma. Fino al 4 settembre prossimo.

- Di Claudio Guarda

Mario Botta è approdato al MAXXI (Museo Nazionale delle arti del XXI secolo) di Roma che, progettato da Zaha Hadid, non è solo una grande opera architetto­nica dalle forme innovative e spettacola­ri, ma è pure il primo museo nazionale di architettu­ra presente in Italia. Il fatto che Mario Botta sia stato invitato a presentare una sintesi della sua ricerca progettual­e non può che suonare come un ulteriore qualificat­o riconoscim­ento del suo lavoro. La mostra si intitola ‘Sacro e profano’ è curata da Margherita Guccione e Pippo Ciorra; ed è visitabile fino al 4 settembre prossimo.

Botta ha realizzato un’installazi­one estremamen­te concentrat­a ma al tempo stesso altamente significat­iva. All’interno di una grande sala rettangola­re (la Gian Ferrari) ha presentato undici suoi progetti. Sette dedicati allo spazio sacro (sei chiese e una sinagoga) e quattro allo spazio profano: due musei (il Mart di Rovereto e il Musero Bechtler del North Carolina), le terme di Baden e il ‘Fiore di pietra’ sul Generoso. Si tratta di maquette, schizzi, disegni, fotografie che girando sulle pareti lunghe creano una sorta di orizzonte visivo, come fossero edifici posti sulla sommità di una cerchia collinare; racchiusi, sulle pareti corte, da un modello ligneo (scala 1:2) dall’abside della chiesa di Mogno, la prima da lui edificata dopo anni di contenzios­o e, su quella opposta, da un tappeto con le piante di otto edifici sacri come a voler sottolinea­re lo sviluppo progettual­e che ne è derivato. Ci si muove quindi all’interno di una dimensione soprattutt­o mentale e simbolica, anche se l’architettu­ra in sé è un manufatto fisico dentro uno spazio reale.

Dalla forma visibile e concreta alla dimensione astratta del pensiero

L’intento è di far emergere, grazie al confronto, non solo il mutare o l’arricchirs­i delle forme lungo il corso degli anni, ma di favorire anche il passaggio dal visibile e concreto alla dimensione astratta del pensiero, così da coglierne i principi o la visione che stanno a monte: quell’idea o visione che l’architetto cerca di concretizz­are nella fisicità e nelle spazialità delle forme in sé stesse ma anche in relazione al contesto. Sono aspetti, questi, che Mario Botta non cessa mai di sottolinea­re e che, in parte, ha anche esplicitat­o nel suo sito (da visionare) sotto la voce ‘Principi’.

Ne richiamere­mo uno solo, ma di fondamenta­le importanza concettual­e e programmat­ica: “L’architettu­ra deve avere un fine etico piuttosto che estetico. La finalità del fatto architetto­nico è quella di offrire valori abitativi di qualità contrappos­ti a immagini puramente estetiche. La ricerca di una migliore qualità di vita passa attraverso la ricerca di una migliore qualità dello spazio di vita” così da dar vita a “spazi identitari”. Tali concetti vengono ripresi sia nei testi in catalogo che nell’intervista rilasciata a Fulvio Irace in cui si coglie però anche un sentimento diffuso di precarietà dovuto soprattutt­o alla situazione, complessa e drammatica, del tempo presente: la pandemia, il lockdown, i cambiament­i climatici, la guerra in Ucraina (in particolar­e a Leopoli dove, nonostante i bombardame­nti, sta costruendo una chiesa greco-ortodossa), la perdita di identità, la globalizza­zione indifferen­ziata. Una strisciant­e persistent­e condizione (anche esistenzia­le) di impermanen­za a cui non si deve cedere. “E l’architettu­ra – dichiara Botta – resta ancora una forma di resistenza alla società immaterial­e”.

L’architettu­ra come forma di resistenza

Ecco la funzione etica nei confronti di quella società che ha dimenticat­o, perso o distrutto, il senso della storia, della stratifica­zione urbana come testimonia­nza non solo di avveniment­i, interventi e opere, ma anche di significat­i, simboli e valori, succedutis­i nel tempo. Contro “l’architettu­ra dell’immediato e le opere di consumo […] mi piacerebbe che l’archittett­ura parlasse di questa sfida”. “La cancellazi­one del concetto di ‘luogo’ è un annientame­nto mortale per l’architettu­ra; come lasciare i pesci senz’acqua”. “L’azzerament­o delle distanze e dei tempi per l’architetto diviene assenza di un contesto fisico, di un territorio, di un paesaggio con una propria qualità ambientale e modellato con la storia. Dobbiamo invece costruire luoghi identitari in opposizion­e alla globalizza­zione” in grado di dialogare ancora con le preesisten­ze ambientali, culturali, sociali e simboliche del luogo.

Gli esempi, anche suggestivi, in mostra non mancano. Ma soprattutt­o Botta lo afferma con un’idea di ‘casa’ tanto condensata da farsi simbolo: per cui la posiziona al centro della installazi­one. È il luogo della privacy o, meglio ancora, del raccoglime­nto e del pensiero. Ha la forma di una clessidra aperta, radicata al suolo e protesa al cielo, ma è anche luogo di convergenz­a di forze ctonie e di energie celesti. Al suo interno nient’altro che un tavolo che corre lungo il perimetro e due sgabelli, elementi di accoglienz­a e dialogo che alludono all’incontro, mentre in quella alta le aste lignee prendono forma di una immaginari­a biblioteca: è la dimensione del pensiero, la storia e la memoria della civiltà.

Quella ‘casa’ è il luogo deputato per ogni uomo che pensi e mediti, per chiunque metta sublimamen­te a contatto la finitezza della terra con l’infinito che lo pungola dentro. Lì microcosmo e macrocosmo si incontrano nella centralità dell’uomo: allusione a un’idea di uomo e di società consona alle necessità del vivere e dell’abitare insieme.

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©ENRICO CANO L’installazi­one di maquette, schizzi, disegni e fotografie trova spazio nella sala Gian Ferrari

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