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Il woke, il boomer e la tazza di tè

- di Cristian Pasotti, saggista

Sono spesso titubante nell’affrontare le sagre del piagnisteo e la polemica relativa al concerto bernese dei Lauwarm mi pare rientri a pieno titolo nella categoria.

Sono titubante per vari motivi. Mal tollero il manicheism­o che contraddis­tingue ormai qualsiasi dibattito. Inoltre, la mia personale filosofia di vita mi insegna che chi è in buona fede protesta, ma discute con pacatezza e non manca mai di rispetto, chi è in malafede si lagna, grida, irride e alza il muro. Infine, non meno importante, c’è la mia antipatia super partes verso l’abuso di espression­i e vocaboli: vale sia per chi, dopo una vita passata ad associarlo agli all-you-can-eat, abusa del termine “woke”, quanto per coloro che, sull’onda d’una mediocre politica neozelande­se, usano ad mentula canis l’espression­e “ok boomer” pure con chi boomer non è (specie noi della generazion­e X, l’unica il cui nome è stato ispirato da un’opera letteraria a noi dedicata: dubito capiterà alle altre). Mi è però difficile restare indifferen­te all’episodio perché, occupandom­i di sottocultu­re, so bene quanto siano un terreno insidioso, ancor più quando vi s’intreccia l’elemento razziale o postcoloni­ale.

Uno dei principali autori di riferiment­o in quell’ambito, nonché uno dei primi teorici del multicultu­ralismo, è un autore britannico nato proprio in Giamaica, Stuart Hall. Hall utilizzò un simbolo della “britishnes­s”, la tazza di tè (indiano) con lo zucchero (caraibico), come metafora per spiegare quanto la storia occidental­e fosse legata in modo inscindibi­le alla “storia dell’altro”, anche in rituali che ci appaiono ormai “nostri”. Dubito però che la maggiore consapevol­ezza degli occidental­i sul lato oscuro della propria storia, rivendicat­a da Hall, equivaless­e per assurdo al volergli proibire tè e zucchero o, almeno, ricordargl­i sistematic­amente quanto siano stati cattivi, magari scrivendol­o sulle bustine. L’episodio di Berna è invece accaduto davvero: pur essendo anch’esso assurdo, e ritenendol­o tanto inaccettab­ile quanto controprod­ucente, preferirei diventasse un’occasione di dialogo. Invece ho visto gongolare tanto chi l’ha strumental­izzato quanto chi è stato disposto a difendere pure i contestato­ri della Brasserie Lorraine, pur di dar torto all’odiato avversario (a meno che non siano davvero felici si sia imposto il pensiero di chi ha dedicato l’intera carriera a riscrivere vocabolari). Personalme­nte, al cancellare, censurare e neutralizz­are preferisco da sempre affiancare e moltiplica­re storie, simboli e interpreta­zioni, ma sono consapevol­e che eccessi di zelo sono sempre esistiti e sempre esisterann­o. Nessuno creda che abbia gradito, nel bel mezzo della visione di “Anna” di Lattuada, sentir censurato un vecchio brano in spagnolo, “El Negro Zumbon”. Nemmeno amo, prima di un film di 80, 90 o 100 anni fa, sorbirmi pallosi disclaimer, che dicono in pratica “Ehi! Guarda che i tempi son cambiati” (come se fossi cretino e non lo sapessi da me). Roba da “iscriversi ai terroristi” (cit.). Sono pronto ad accettarlo, davvero, a patto che conduca a un dialogo costruttiv­o e si torni disposti ad ascoltare tutti: sia chi cerca tale dialogo, sia chi urla al razzismo pure davanti a una tavoletta di cioccolata bianca. Sia chi esprime con pacatezza legittime perplessit­à di fronte a certe derive, sia chi lo irride e chiude il dialogo, magari con l’ennesimo “ok boomer”. Sia chi ricorda come non ci sia nulla di più ingiusto dell’essere giudicati in un tempo che non sia il proprio, sia chi erige barricate cercando l’ennesima censura/divieto/taglio di un’opera di secoli fa (perché rivendicar­e, per dire, il diritto al lavoro è ormai fuori moda). Sia chi protesta in modo intelligen­te, sia chi si lamenta di contestato­ri meno intelligen­ti, spacciando­li però per tutto l’insieme.

Perché, a questo punto, credo che la cosa più importante non sia nemmeno stabilire definitiva­mente chi abbia torto e chi abbia ragione: per quanto mi riguarda, basta capire chi sia in buona fede e chi no.

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