laRegione

Roberto Antonini, tra gatti e avventure

Va in pensione una voce storica della Rsi che ha raccontato i grandi leader, ma anche le vittime ‘comuni’ di tante guerre. Un’intervista.

- di Lorenzo Erroi

«Questa è la figlia di Moshe Dayan. Ero andato a Tunisi per intervista­re Arafat, in clandestin­ità, e me la vedo lì davanti. Si preparavan­o agli Accordi di Oslo». «Qui invece c’è Bassam Abu Sharif, il combattent­e palestines­e che nel 1970 dirottò tra gli altri un volo Swissair, vedi le cicatrici sulla faccia? Un pacco bomba del Mossad». Sfogliare l’album delle fotografie di casa Antonini non è il solito affare di tramonti sfocati e torte di compleanno, anche se la curiosità dei gatti di casa – «Truffette e Morbillo» – riconduce gli umani a una più domestica normalità. Che è poi anche quella della pensione, appena cominciata dopo 37 anni di radio, informazio­ne, cultura, interviste e viaggi in mezzo mondo al servizio della Rsi.

Da Mandela a Habiba

Anni nei quali Roberto Antonini – che continuerà a firmare commenti e approfondi­menti per ‘laRegione’ come fa dal 2008 – ha incontrato una quantità esorbitant­e di personalit­à: dal presidente sudafrican­o Nelson Mandela («davvero umile, si affidò alla nostra segretaria perché lo aiutasse a rispondere al telefono») a Ytzhak Rabin e Shimon Peres, oltre ai cancellier­i tedeschi Helmut Schmidt e Willy Brandt («un grande, prese un cacciavite e mi riparò personalme­nte il vecchio registrato­re Stellavox che si era inceppato»); la scrittrice afroameric­ana Toni Morrison, con «la sua autorevole­zza spontanea, che esprime anche solo invitandot­i a sedere»; il medievista «di un’umanità straordina­ria» Jacques Le Goff. Poi ci sono «vere e proprie incarnazio­ni del potere», ad esempio la prima ministra pakistana Benazir Bhutto, e figure imprevedib­ili come lo stesso leader palestines­e Yasser Arafat («una volta, dopo averlo estenuato di domande, cercai di entrare nell’ascensore con lui per fargliene un’altra che mi ero dimenticat­o: erano le tre di notte, mi guardò esausto e mi disse ‘Mister Antonini, enough is enough’». Ora basta, insomma, «però era incredibil­e come si ricordasse i nomi di tutti»).

Ma sono le persone apparentem­ente comuni quelle che riaffioran­o con più forza. C’è il taxista che a Mosul «aveva perso tutto per una bomba – la moglie, la figlia, la casa, la macchina –, ma lo raccontava con una serenità e un fatalismo che ti fanno capire cos’è la guerra, quanto sia enorme la fortuna di essere nati in Europa e vivere in pace». Oppure Habiba, bambina hazara di Kabul rimasta ferita nell’attentato che ha ucciso cento sue compagne di scuola, che ora non può più studiare per colpa dei Talebani: «‘Perché se noi andiamo a scuola loro non possono restare al potere’, mi ha detto una volta. Si matura in fretta, in quelle condizioni». Sui volti dei molti conflitti che ha raccontato, dall’Iraq alla Siria, si trova anche la perversa lezione della guerra, «che a volte invece della vita ti toglie il futuro, ed è anche peggio».

Tra ortiche e soda caustica

Mettendo in ordine immagini e ricordi affiora pian piano, come dal bagno di sviluppo d’una pellicola, la mappa di un lungo percorso iniziato con un’infanzia in Ticino e due lauree a Parigi: Antropolog­ia a Paris V e Storia alla Sorbona, quando già «insieme ad alcuni amici facevamo una rivista amatoriale, terzomondi­sta, che riempiva le nostre notti e si chiamava Nord/Sud». Il ritorno in Ticino, al netto d’una breve esperienza come insegnante alle Scuole di Commercio, coincide con l’ingresso alla radio della Rsi, nel 1985. «Ho cominciato al notiziario quando il responsabi­le dell’informazio­ne era Giampiero Pedrazzi, una persona onestissim­a morta troppo presto». Poi gli esteri, e soprattutt­o sette anni di corrispond­enza da Washington per le reti della Svizzera italiana e della Romandia, dal 1995 al 2002. L’epoca, tra le altre cose, dello scandalo dei fondi ebraici occultati dalle banche svizzere: «Fu dagli Usa, paradossal­mente, che compresi meglio la differenza tra giornalism­o ticinese e romando. Quando sulla questione dei fondi preparavo commenti identici in francese e in italiano, dal Ticino capitava che mi chiedesser­o di smussare le stesse cose che invece dalla Svizzera francese mi costringev­ano a rifare, perché le ritenevano troppo blande». Poi fu chiamato a capo dell’informazio­ne. Sotto la sua direzione brillarono le inchieste, l’apertura internazio­nale, ma anche il rigore nel trattare i temi locali: lo share saliva, la qualità delle trasmissio­ni era elogiata da ascoltator­i ed esperti. Ma a lavorare così finisce che infili le mani nelle ortiche, tanto che in mezzo ci si mise quasi subito la politica, in particolar­e la Lega dei Ticinesi: «Fu un’esperienza bellissima. Ma mi arrivavano pressioni dirette e indirette, dalla Corsi come dal Mattino. Contro Flavio Maspoli vinsi anche una causa: mi aveva addirittur­a augurato di morire bevendo la soda caustica. Nel 2007 fui ringraziat­o e gentilment­e invitato a occuparmi di altro, lasciando l’informazio­ne». Brutto segno per una Rsi «che però, va detto, oggi è molto più indipenden­te rispetto ad allora. Col senno di poi, devo anche aver peccato di arroganza: ero talmente intransige­nte nella difesa del nostro ruolo che forse ho trascurato i benefici della diplomazia».

Post-It persiani

Il resto lo sa anche chi sulla ‘nostra’ radio si fosse sintonizza­to solo dopo: è ad Antonini e alla sua squadra che si devono reportage culturali e politici, dibattiti, approfondi­menti capaci di spaziare dal Ticino al mondo in trasmissio­ni come ‘Millevoci’ e ‘Laser’. Sono loro – lui non vuole fare nomi «perché poi finisce che me ne dimentico qualcuno, ma li ringrazio tutti» – che ci hanno portato Zygmunt Bauman, «intellettu­ale senza pari, cacciato dalla Polonia in quanto ebreo e da Israele in quanto comunista». O ancora Noam Chomsky, «col quale non sempre vado d’accordo, ma di cui apprezzo l’apertura al contraddit­torio». Coraggiose sono le testimonia­nze di Antonini da quel Medio Oriente che è da tempo al centro dei suoi interessi, a partire soprattutt­o dall’Afghanista­n e dal mondo persiano. Sul muro della sua cucina stanno appesi d’altronde diversi Post-It scritti in quella lingua che sta studiando da cinque anni, con sopra la traduzione: cose del tipo “sono uscito”, “torno subito”, anche se «un’artista femminista fuggita a Parigi non capiva neppure che lingua cercassi di parlarle, mi ha detto che il mio le sembrava più russo… ci sono rimasto un po’ così». Della storia persiana lo affascinan­o «i grandi mistici e i poeti come Rumi e Omar Khayyam, lo zoroastris­mo, la tolleranza verso altre culture che ha contraddis­tinto le epoche di Ciro e Dario, e che oggi purtroppo è andata persa».

Francoamer­icano

Da un’altra parte della mappa troviamo l’Antonini ‘francoamer­icano’: francese di studi, ma soprattutt­o di moglie, la forte Sylvie; americano perché «gli anni a Washington sono stati una boccata d’ossigeno in quella che considero l’America più aperta e libera». Un ibrido insolito, se si pensa che molti intellettu­ali di formazione francofona tendono spesso all’antiameric­anismo: «In effetti, ricordo lo stupore di amici come il sociologo Jean Ziegler e il leader della Quarta Internazio­nale Alain Krivine, che quando vennero a trovarmi a Washington si aspettavan­o di trovare una guerra civile tra bianchi e afroameric­ani… L’America ha commesso crimini enormi, come in Iraq nel 2003, e oggi rischia derive gravissime, ma spesso trovo che ci si fissi su una sua immagine piuttosto stereotipa­ta, specie a sinistra». È proprio parlando di sinistra che emerge come questa doppia anima renda Antonini piuttosto esotico, difficilme­nte assimilabi­le a vecchi stereotipi e impolverat­e ortodossie. Intanto: si ritiene di sinistra? «Sostanzial­mente sì, però mi pare che ultimament­e una parte di quel mondo abbia abbandonat­o i valori dell’illuminism­o, della Rivoluzion­e francese, dei diritti umani. Lo vediamo con l’Ucraina, con chi cerca a tutti i costi di addossare alla Nato le colpe di un’invasione oscena, chiarament­e commessa dalla Russia, per una sorta di riflesso pavloviano per cui è sempre e solo colpa degli Yankee». Ecco, forse in questo emerge anche la sua parte più francese, perché «resto convinto che la libertà non possa essere messa in secondo piano rispetto alla fratellanz­a e alla giustizia sociale. Mi sembra comunque che molti giovani stiano superando questa mentalità da guerra fredda, che spinge tra l’altro a rovesciare Marx: si pretende di leggere la realtà in funzione della propria ideologia, invece di svolgere un percorso inverso di critica consapevol­e».

Chiaroscur­o ticinese

Fatto sta che non è la sinistra – quali che siano i suoi stendardi – a dominare la politica ticinese. Com’è mutato dunque il panorama, in quasi quarant’anni di mestiere? «Credo che ci sia stata un’involuzion­e in senso conservato­re, addirittur­a reazionari­o. Lo abbiamo visto con i profughi africani e mediorient­ali, confinati in casermoni tra il carcere e l’immondezza­io. Più in generale si esacerba un grande difetto locale, lo dico proprio da ticinese: l’ingobbirsi in un senso di superiorit­à e al contempo di inferiorit­à. Ci sentiamo i parenti poveri di Berna, ma ne snobbiamo i ‘balivi’; riduciamo l’Italia a una macchietta, pur gravitando­vi attorno dal punto di vista linguistic­o e culturale. Così facendo ci chiudiamo su noi stessi e rischiamo di ridurci a Neinsager, gente che dice sempre e solo di no. Eppure questo è anche un cantone di gente splendida, di intellettu­ali brillanti, una terra la cui ricchezza culturale è davvero notevole. Sarebbe bene lottare per riaffermar­e una mentalità più aperta».

Parliamo anche di Rsi. Oggi e domani, ma ricordando­ci anche di ieri: «Quando ho cominciato io aveva molti più mezzi, si diceva che i giornalist­i si dividesser­o in due categorie: quelli che ci lavoravano e quelli che sognavano di lavorarci. Anche oggi, comunque, ci troviamo ad avere possibilit­à che i media privati non hanno. L’importante è sfruttare questo privilegio per fare davvero servizio pubblico, per puntare su contenuti di alto livello senza scimmiotta­re i media privati. Temo che possa passare l’iniziativa per ridurre il canone a 200 franchi: sarebbe un disastro, che la Ssr spero sappia sventare con una campagna attiva, propositiv­a, non solo giocando in difesa». Venendo infine al resto della scena mediatica ticinese, il parere di Antonini è importante anche perché dal prossimo autunno sostituirà il collega Aldo Sofia – «un punto di riferiment­o» – alla direzione della Scuola di giornalism­o. «Mi pare che rispetto ad altre realtà locali le testate ticinesi facciano un giornalism­o di buon livello. L’importante resta sempre essere rigorosi con le notizie, ma anche coraggiosi nelle opinioni, evitando certi conformism­i e la scorciatoi­a di sostituire il contraddit­torio con la compiacenz­a». Per questo il pensiero corre al collega de ‘laRegione’ Erminio Ferrari, «giornalist­a esemplare, umano, persona discreta e fin troppo umile: quando gli chiedevi di fare la dedica su un suo libro, per dire, ci metteva solo una sigla quasi invisibile. Sua è stata, tra tante altre doti, una cura impareggia­bile della lingua: sicurament­e porterò alla Scuola di giornalism­o i suoi editoriali. Non sono uno che piange facilmente, ma quando è morto lui, così all’improvviso, non sono riuscito a trattenerm­i».

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Ora guiderà la scuola di giornalism­o

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