laRegione

Il canzoniere di Faber come elogio della fuga

Tra le righe del saggio ‘La filosofia di Fabrizio De André’ (Il Melangolo) dello storico della filosofia, musicologo e musicista Simone Zacchini

- Di Valerio Rosa

“Si può fuggire per molti motivi: si può fuggire da una catastrofe, da una persecuzio­ne: di solito, in condizioni normali si fugge da un’angoscia: può essere quella della morte o più sempliceme­nte il timore dell’identifica­zione o del controllo dell’autorità; si scappa dalla paura di essere identifica­ti in un solo mestiere, in un solo atteggiame­nto, in una maschera”. Così annotava De André, commentand­o la predisposi­zione comune all’umanità sbandata e ferita che aveva accolto e raccontato nelle sue canzoni. Un tema talmente ricorrente e imprescind­ibile da indurre lo storico della filosofia, musicologo e musicista Simone Zacchini a interpreta­re (nel saggio ‘La filosofia di Fabrizio De André’, ed. Il Melangolo, pp. 150, € 10) l’intero canzoniere di Faber come un elogio della fuga, di cui indaga i presuppost­i, le modalità e i possibili approdi. In quest’ottica l’opera di un intellettu­ale anarchico, in un certo senso l’ultimo dei pensatori presocrati­ci, ruoterebbe intorno alle costrizion­i che ostacolano gli uomini nella fatica di diventare sé stessi, costringen­doli a fuggire dai rituali e dai conformism­i di “un mondo che ha ridotto l’uomo a cifra dell’economia e le persone a tristi consumator­i inesausti; un mondo inumano dove gli uomini valgono meno delle monete”. La fuga da una vita indegna di essere vissuta è la scelta delle anime salve, che si staccano coraggiosa­mente dalle imposizion­i del gregge per ergersi a uniche artefici del proprio destino.

Queste figure solitarie, che veleggiano in direzione ostinata e contraria “per consegnare alla morte una goccia di splendore” (da ‘Smisurata preghiera’), sono gli scemi del villaggio che hanno voltato le spalle ai facili schemi e ai comodi pregiudizi in cui una società ottusa li incasellav­a, alienandol­i e soffocando­li. Sono utopisti che hanno rifiutato di lasciarsi incanalare entro “la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazion­e” (citazione da Henri Laborit, un autore amato da De André). Una rotta diversa, da una stazione all’altra, è quella che segue senza retropensi­eri né rimorsi Bocca di rosa, allegra incarnazio­ne del mito della Natura, grande madre mediterran­ea che accoglie tutti i suoi figli e li ama senza riserve. È il puro istinto vitale che, come l’amore in ‘Dolcenera’, ha sé stesso come solo argomento. Alle rigide regole scritte, che mirano a sopire e reprimere gli istinti di libertà, e all’autorità dei gendarmi che ottusament­e le applicano, si appellano allora i demoni dell’aridità e della morte (le “cagnette a cui aveva sottratto l’osso”, la vecchia “senza mai figli e senza più voglie”), per eliminare l’allegria, la primavera, la voglia di vivere offrendo la faccia al vento: la ventata d’aria fresca, la possibilit­à di liberazion­e che la donna aveva portato nel paesino di Sant’Ilario in barba alla rispettabi­lità dei buoni borghesi e alle maglie censorie dell’ordine costituito. Un ordine che è una trincea di leggi, come quelle che obbligano Piero e altri giovani sbandati a indossare divise di colori diversi e per questa ragione a combatters­i e a uccidersi, pedine del potere che prende il controllo delle vite degli altri attraverso la guerra, il giudizio, il sopruso e la prevaricaz­ione. Nella lettura di Zacchini, ‘La guerra di Piero’ non è però soltanto una canzone simbolo dell’antimilita­rismo, ma soprattutt­o un confronto tra le leggi della natura e le leggi dell’uomo: da un lato, una condizione ideale in cui persino la morte, come tutte le cose della vita (compreso il sentimento amoroso, dissacrato e ridimensio­nato in Amore che vieni, amore che vai), trova serenament­e il posto che le spetta in una dimensione ciclica; dall’altro, una condizione violenta e inumana, imposta dalle dinamiche di un potere che sottomette sudditi senza voce al volere e ai capricci di chi lo esercita.

De André canta le storie dei poveri cristi, degli umili, degli emarginati, dei vinti, sollevando la polvere dalle loro vicende per reclamare, come ne ‘La città vecchia’, l’umana pietà negata dai codici, che cristalliz­zano le ambizioni meschine, le millenarie paure e le inesauribi­li astuzie di un’umanità arida e grettament­e moralista. E se il potere, arbitro in terra del bene e del male, non vuole sentire ragioni, si può invocare la misericord­ia di un Dio disposto a regalare sorrisi a chi non ne ha mai avuti. Una divinità pagana a cui rivolgere una ‘Preghiera in gennaio’ perché non giudichi severament­e la disperazio­ne dei suicidi; un Dio gentile e comprensiv­o, che si fa uomo nei gesti paterni e religiosi (“versò il vino, spezzò il pane per chi diceva: ho sete, ho fame”) del silenzioso ed enigmatico pescatore nei confronti di un giovane e impaurito assassino, anch’egli in fuga.

“Il pane e il vino”, osserva Zacchini, “la carezza di un momento, il ricordo dell’infanzia e poi il sogno di un’avventura che continua: tutta la canzone esprime una grande liturgia della vita, senza trascenden­za e senza peccato, tutta immanente ed innocente come la natura, finché l’ultimo raggio di sole non scava un solco lungo il viso. L’ultimo raggio, come l’ultima fioca luce che rischiara il pescatore, richiama quell’ultimo esile filo di voce di Gesù morente in croce”. Ma dove conduce la fuga dell’assassino? Dove si rifugiano, ritrovando­si, le anime salve? La risposta, per Zacchini, va cercata seguendo la rotta di altri pescatori, che come l’Ismaele di Moby Dick prendono il largo per cacciare la malinconia e regolare la circolazio­ne. Il Mediterran­eo di ‘Crêuza de mä’, mare circondato da terre e terra bagnata dal mare, per Pavese “una meta che cancella l’andare”, è un microcosmo da esplorare a bordo di un’imbarcazio­ne più simile al bateau ivre di Rimbaud, che assorbe le inquietudi­ni e le angosce dei marinai, che al Nautilus del Capitano Nemo, simbolo dell’ottimismo positivist­a che addomestic­a la natura e assoggetta un mondo che l’uomo sa dominare con il pensiero e con la mano. Qui le convenzion­i terrestri non hanno alcun valore: il sole, al massimo del suo splendore, lascia i marinai senza ombra, alla maniera dei morti; la luna, nel cielo in cui il Diavolo si è fatto il nido, domina una notte che punta il coltello alla gola; il mattino, per chi approda temporanea­mente a terra, si porta via i brevi momenti di spensierat­ezza e riconduce i marinai alla loro necessità e scelta di vita. Tutto è da ripensare e da ricostruir­e, ristabilen­do l’armonia del cosmo compromess­a dalle leggi degli uomini, “in questo Mediterran­eo senza tempo che”, conclude Zacchini, “è la somma di tutti i tempi della sua storia, che è mito e immaginazi­one, che è un luogo dell’anima anziché un posto fisico, dove finalmente De André oltrepassa la collina ed incontra una frontiera culturale, un orizzonte meraviglio­so da dove sono germogliat­i tutti i miti e tutte le storie, tutti i significat­i e tutte le interpreta­zioni. Da dove finalmente trovare quei sentieri interrotti dell’Occidente e ripercorre­rli verso la loro fonte”.

 ?? KEYSTONE ?? Intellettu­ale anarchico, in un certo senso l’ultimo dei pensatori presocrati­ci
KEYSTONE Intellettu­ale anarchico, in un certo senso l’ultimo dei pensatori presocrati­ci

Newspapers in Italian

Newspapers from Switzerland