Un disco per l’estate
Visto da lontano è un sottile disco in argilla cotta perfettamente, di finissimo impasto (come per le tazze minoiche dette a guscio d’uovo), fabbricato a mano e perciò non perfettamente regolare, del diametro di circa 16 centimetri, di colore giallo-senape. Sulle due facce sono impressi 242 segni di 45 tipi diversi, posizionati dentro spirali che convergono al centro, suddivisi da linee perpendicolari che delimitano 17 insiemi di figurine, riunite a formare 61 parole. Alcuni ideogrammi sono stati obliterati e sostituiti da altri. Il disco è conservato nel Museo archeologico di Candia, sull’Isola di Creta.
Parliamo di uno dei reperti più famosi al mondo. Un disco che però nessuno è ancora riuscito ad ‘ascoltare’ e capire del tutto. Ma forse proprio per questo conserva intatto il suo fascino, per gli specialisti che lo studiano da più di un secolo, nonché per gli appassionati di cose antiche. Parliamo del Disco di Festo, uno dei grandi enigmi - intenzionalmente non ho usato il termine ‘misteri’ - dell’archeologia moderna. Dagli studiosi delle civiltà del Mediterraneo è considerata una delle scoperte più importanti del secolo scorso nel campo dell’epigrafia. Louis Godart, insigne studioso del mondo egeo e delle scritture antiche mediterranee, lo definisce come il primo testo della storia umana composto mediante caratteri mobili; precedente ai tentativi cinesi e a quelli dell’olandese Laurens Coster
(vissuto tra XIV e XV secolo), per non dire della Bibbia di
Gutenberg: qui siamo nel II millennio avanti Cristo!
Le domande
Cosa racconta il lungo testo che copre le due facce del disco? Come si devono leggere quei segni unici? Appartengono a una scrittura già conosciuta nella regione come la lineare A e la lineare B, oppure non sono per nulla imparentate con le più illustri sorelle? Lo scritto corrisponde a una lingua parlata nel passato e quei segni sono ideogrammi, sillabe o lettere singole? Da chi fu creato, in quale contesto e impiegando quali mezzi tecnici? Come mai è stato trovato in un luogo appartato tra le rovine di un palazzo minoico di Festo, Faistòs in greco? Molte domande e a tutt’oggi... poche risposte.
La storia
Ha inizio alla fine dell’800 in un clima di entusiasmo tra gli archeologi di mezzo mondo per le scoperte sensazionali che avvenivano in tutto il Medio Oriente, in Egitto, Turchia, Grecia e ltalia. Stava tornando a galla il grande passato legato alle civiltà che nel corso dei millenni ruotavano attorno al Mediterraneo ed erano considerate, a giusta ragione, alla base della cultura occidentale, quando non della cultura tout court: la nascita dell’agricoltura, di società strutturate con meccanismi di accumulo della ricchezza, lo sviluppo dei commerci internazionali, le città e i grandi imperi, la scrittura, l’arte. Le nazioni che in quei tempi si spartivano il pianeta militarmente, politicamente ed economicamente ambivano ad accaparrarsi una bella fetta di antichità, da collocare nei musei d’Europa che nascevano allora. Dopo l’ubriacatura coloniale, molti di quei tesori hanno ripreso la via di casa o perlomeno sono richiesti dai governi attuali, come i Fregi del Partenone, l’Altare di Pergamo, il Tesoro di Priamo. A Creta lavorava una missione italiana che si era installata nella pianura interna della Messarà, una zona circondata da alture che promettevano scoperte interessanti. A capo della missione c’era
Federico Halbherr, ‘mezzo signore’ solo nel nome, fiancheggiato da Antonio Taramelli e in seguito da Luigi Pernier; sarà proprio lui a far riemergere dal buio il nostro disco, in un deposito secondario di un palazzo minoico di Festo – città importante, come ricordato da Omero nell’Iliade e nell’Odissea –, unitamente a una tavoletta incisa con la lineare A. Le ricerche proseguiranno per decenni con Doro Levi e la Scuola archeologica italiana di Atene. Era - raccontano le cronache - una giornata di un’estate
del 1908 particolarmente calda, forse come quelle del luglio di quest’anno.
Siamo nel periodo minoico: una civiltà che fiorì sull’isola di Dedalo a partire dal III millennio e che ebbe il suo apice tra il XVII e il XVI secolo avanti Cristo. Dopo i minoici arrivano gli achei, greci micenei, verso il 1450 a.C. con distruzioni dei palazzi antichi dovute più all’uomo che alla natura (leggi terremoti e incendi); a loro volta soppiantati da invasori definiti genericamente ‘popoli del mare’ qualche secolo dopo. Una civiltà complessa che si esprimeva con tre tipi diversi di scrittura: geroglifici, presenti soprattutto sui sigilli per un lungo periodo, e le due lineari A (minoici) e B (micenei), che servivano essenzialmente per la contabilità delle merci in entrata e uscita dai magazzini reali e per informare il sovrano sui raccolti e sul lavoro dei sudditi.
Visto da vicino
Nel Capitolo quarto di un testo di qualche anno fa riccamente illustrato (Il disco di Festo, Einaudi), unico per completezza e chiarezza di esposizione, Louis Godart analizza il nostro disco per stabilire certezze e incognite relative alla sua fabbricazione e al suo significato. Un discorso complesso ma affascinante poiché illustra egregiamente come procede la ricerca della verità da parte degli archeologi; un processo che richiede una vasta conoscenza dell’orizzonte culturale e dintorni coi quali sono confrontati nel loro lavoro.
Nel riquadro a lato riportiamo alcune conclusioni dell’autore, tralasciando altre questioni importanti e i ragionamenti che hanno portato a quelle affermazioni. In questa occasione abbiamo evidenziato solo alcuni punti di un dibattito che vede confrontati studiosi di mezzo mondo, più o meno concordi su alcune delle conclusioni che ho ricordato sopra. Certezze e ipotesi che Louis Godart aveva già presentato a Lugano in una serata memorabile tenutasi al Palazzo dei Congressi nel 1994. Il tempo è passato, ma le basi solide del suo ragionamento, con le quali ci si confronta ancora, rimangono valide.
Il racconto del disco rimane tuttora un unicum indecifrato, mentre Godart scarta le ipotesi che si tratti di un testo a sfondo religioso o magico (poiché non suffragate da prove).