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America sull’orlo di una crisi di nervi

Oggi le elezioni di metà mandato. Viaggio attraverso gli Usa tra candidati che sbraitano, proiettili che fischiano e portafogli che friggono

- di Roberto Scarcella dagli Usa

Accendo la tv: c’è un portafogli­o che frigge in un olio nero, dentro una padella nera, in una cucina buia. Quel poco che si intravede del cuoco è abbastanza da convincerv­i non solo a saltare il pasto, ma anche a scappare da quella cucina. Quando mi giro verso il comodino per controllar­e che nessuno mi stia friggendo il portafogli­o, irrompe una voce fuori campo: “È così che il governo e i Democratic­i spendono i tuoi soldi. Se vuoi salvare l’America, vota repubblica­no”. Esco dal motel per fare colazione, giro l’angolo e mi imbatto nella City of Grace, una chiesa di un culto che ha meno anni di me, una di quelle religioni fai-da-te dalla trinità sbilenca “padre-figlio-contoinban­ca” che prosperano come non mai negli Stati Uniti, con l’immagine in bianco e nero dei due pastori che l’hanno creata, in posa sorridenti come in un book fotografic­o pronto da mandare a Hollywood. È mattino presto e la chiesa è chiusa: sulle scale c’è un uomo con la maglietta di Capitan America la cui colazione è a base di crack. Siamo a due passi dal centro di Phoenix, in Arizona, la quinta città più popolosa del Paese.

La sera prima, in cerca di un posto sotto i cento dollari in cui passare la notte, ho scartato il Motel 6, in cui sono recentemen­te avvenute due sparatorie. Ma tenersi lontano dai proiettili vaganti è quasi impossibil­e. Poche ore dopo, a Mesa, una città di 500mila abitanti (definita appena qualche anno fa la “più conservatr­ice d’America”) confinante con Phoenix, moriranno altre tre persone in due sparatorie distinte, una in casa, l’altra nel parcheggio di una pizzeria. Sono negli Stati Uniti da poco più di venti giorni e, tranne in un paio di casi (e parliamo di villaggi di poche centinaia di abitanti), in ogni città o paese da cui (…)

(…) sono passato c’è stata – nel solo 2022 – almeno una sparatoria che ha coinvolto e ferito o ucciso più persone.

In questo clima, fatto di parole, gesti e armi fuori controllo, oggi l’America va alle urne per le elezioni di metà mandato: un voto intermedio – a due anni esatti dalla vittoria di Joe Biden e a due dalla proclamazi­one del prossimo presidente – che d’intermedio sembra non avere nulla. Tutto appare invece definitivo, come ogni cosa toccata o detta da Donald Trump, protagonis­ta assoluto di queste elezioni in cui nemmeno è ufficialme­nte candidato. L’ex presidente sa che dalla portata del successo dei repubblica­ni e dalla sua strategia apocalitti­ca, tanto da evocare persino la guerra civile, passa la strada per il ritorno alla Casa Bianca.

Vantaggio repubblica­no

I sondaggi lo galvanizza­no, premiando – come sempre, più di sempre – il partito all’opposizion­e. Storicamen­te le elezioni di metà mandato sono una trappola per il presidente in carica. Solo in tre casi, nel 1934 (F.D. Roosevelt), nel 1998 (Bill Clinton) e nel 2002 (George W. Bush), hanno guadagnato consensi e seggi alla Camera, i cui 435 membri verranno tutti rinnovati oggi. I democratic­i avevano una maggioranz­a di 220 a 212 (e tre seggi vacanti), ma incrociand­o i dati ci sarebbe l’83% di possibilit­à di un ribaltone: in pratica non si tratta di capire se perderanno il controllo della Camera, ma di quanto andranno sotto. Perfino presidenti amati e poi rivotati in massa al secondo mandato come Bill Clinton e Barack Obama hanno visto dissolvers­i rispettiva­mente 52 (nel 1994) e 63 deputati (2010). Trump stesso, quattro anni fa, ne perse quaranta. Diverso è il discorso in Senato, dove a oggi la maggioranz­a è a dir poco risicata (50 e 50, ma in caso di parità la vicepresid­ente Kamala Harris ha diritto di voto). Ma il passato e le coincidenz­e tendono la mano a un Biden in caduta libera (il suo gradimento è al 40%, uno dei più bassi di sempre): qui i tavoli rovesciati sono infatti più rari e in ballo ci sono solo 35 dei 100 seggi, per di più 21 di quei 35 sono dei repubblica­ni, che hanno quindi – almeno aritmetica­mente – più da perdere che da guadagnarc­i.

I sondaggi, fino a pochi giorni fa, davano i due partiti in sostanzial­e parità, ma uno dei siti più autorevoli, fivethirty­eight.com, ieri ha simulato il voto per 40mila volte: nel 54 per cento dei casi a spuntarla sono stati i repubblica­ni.

Aggrappati a Obama

Una simile débâcle lascerebbe poche speranze a una ricandidat­ura di Biden nel 2024 (e tutto sommato, dicono i commentato­ri più maligni, o forse più avveduti, una parte dei democratic­i non sarebbe così dispiaciut­a). Il partito del presidente si aggrappa intanto a un altro presidente, Obama, spedito in ogni angolo del Paese come un amuleto a raccattare consensi: è andato in Arizona a dire a mezza bocca che potrebbe rilevare i Phoenix Suns, la squadra di basket locale, da lì è corso in Nevada, Wisconsin e infine in Pennsylvan­ia, dove potrebbero decidersi i destini del Congresso.

La battaglia sull’aborto

L’altro grande aiuto a Biden arriva dalla battaglia sull’aborto, che si è riaccesa dopo l’annullamen­to della sentenza dello storico caso “Roe vs Wade” del 1973 da parte della Corte Suprema, nel giugno scorso. I repubblica­ni, aizzati dalla cosiddetta area “pro-life” – rumorosa e danarosa – sostengono la decisione, ma la maggioranz­a della popolazion­e (e delle donne in primis) non vuole che il diritto all’aborto venga toccato: Biden e i democratic­i si sono schierati in modo netto e su questo insistono nella speranza che cavalcare un tema forte dia i suoi frutti.

Strategia che potrebbe rivelarsi un boomerang, perché tacere dell’inflazione che sta moltiplica­ndo il numero di poveri e dare risposte evasive sul riscaldame­nto globale non sembra sia stato apprezzato dall’elettorato. La valanga rossa, colore storicamen­te associato ai repubblica­ni, potrebbe quindi inghiottir­e l’intero Congresso. Come arrivarci o arrivarci con stile non sembra un problema da porsi per l’ala più conservatr­ice, che siano candidati o elettori: in Virginia, la repubblica­na in corsa per la Camera Yesli Vega (che si presenta come “madre, poliziotta e moglie di un militare”), fervente antiaborti­sta, è arrivata a dire che “in caso di stupro non si resta incinta”, quindi l’aborto andrebbe negato senza troppi distinguo.

In Georgia, la gloria locale del football e aspirante senatore Herschel Walker (dodici stagioni nella Nfl), uno di quelli tutti “Dio, patria e famiglia”, vicinissim­o a Trump, è stato accusato da due donne di averle convinte – tra dollari e minacce velate – ad abortire. In pubblico, però, sostiene che l’aborto equivale a un omicidio e che non vada praticato nemmeno nel caso in cui ci sia pericolo di vita per la madre. Il Washington Post è andato a intervista­re i suoi elettori, sempre convinti di sostenerlo con un’alzata di spalle e con il ritornello “tutti fanno degli errori”.

Iceberg estremista

Vega e Walker sono solo la punta dell’iceberg di un estremismo diffuso: si calcola infatti che a livello nazionale e statale (si vota anche per 39 governator­i) siano ben 291 i candidati repubblica­ni con posizioni estreme, convinti che la vittoria di Biden sia illegale e ottenuta con una serie di frodi.

Le pubblicità dei democratic­i che hanno battuto su questo tasto non hanno avuto l’effetto sperato, anzi, hanno fatto in modo di far conoscere ai complottis­ti più pigri, quelli che non vanno oltre alla tv per informarsi, personaggi che gli corrispond­ono, facendo quasi un favore agli avversari.

La base repubblica­na storica, molto più conservatr­ice sui temi economici che su quelli sociali, si è già smarcata da Trump e dalle sue teorie e pratiche del caos: ovvero, alzare un grosso polverone e poi fare la conta di ciò che resta. In Pennsylvan­ia si è arrivati al body shaming elettorale, mostrando con insistenza una foto mal riuscita della candidata democratic­a Susan Wild, con il sottotesto “affiderest­e il Paese a una donna così brutta?”.

Tra ferocia e stanchezza

L’immagine più brutta è però quella dell’America stessa, che appare stanca e senza idee tra i democratic­i, feroce e spietata tra i conservato­ri, specialmen­te quelli che fanno più presa. Un popolo sull’orlo di una crisi di nervi, la cui gentilezza ostentata del primo approccio crolla davanti a una banale incomprens­ione: receptioni­st e commessi barricati dietro grate, guardie private dappertutt­o, carte di credito sequestrat­e all’ingresso di bar e ristoranti finché non si paga il conto, vendite di armi cresciute a dismisura dalla pandemia in poi, lunghe file di homeless senza speranza e la sensazione di essere in pericolo sempre, non solo nelle periferie, in alcuni casi off-limits, ma anche nel centro di Los Angeles o San Francisco.

Lasciare quella giungla d’asfalto, atterrare a Washington, saltarne a piè pari i bassifondi, passeggiar­e nell’immacolato Lincoln Park e dormire in una di quelle case borghesi da telefilm con i pannelli solari sul tetto, il vialetto pieno di foglie colorate da rastrellar­e e gli addobbi di Halloween fuori tempo massimo segna tutta la distanza tra due mondi costretti a vivere come uno solo e mettere il voto nella stessa urna.

In diversi cortili del quartiere, come se fosse qualcosa di organizzat­o, spuntano come funghi cartelli con frasi di Martin Luther King. Una, tra tante, dice: “L’amore è l’unica forza capace di trasformar­e il nemico in un amico”. Anche questa è America, a una manciata di minuti da Capitol Hill. Eppure sembra la più lontana di tutte.

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KEYSTONE La valanga conservatr­ice potrebbe investire l’intero Congresso. Si vota anche per numerosigo­vernatori
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KEYSTONE Trump tira lavolata
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KEYSTONE Almenoprov­arci

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