laRegione

Stagione confusa, valanga mancata

- di Roberto Scarcella da Washington

In una Washington dove giri in t-shirt tra i primi addobbi natalizi, con le rondini sopra la testa e le foglie ingiallite tra i piedi che intasano i vialetti, non solo si fatica a capire in che stagione siamo, ma anche chi ha vinto davvero queste elezioni che dovevano essere la valanga trumpiana. Valanga che invece pare aver investito proprio lui, il Donald furioso, dal cui staff filtrano indiscrezi­oni che lo raffiguran­o “livido” e in preda a una serie di urlacci contro chiunque gli capiti a tiro. Niente di diverso da un suo normale comizio, penserà qualcuno, ma la differenza questa volta c’è: Trump urla perché i repubblica­ni sono andati bene, ma non quanto atteso. Di sicuro non benissimo. E non sono andati benissimo proprio per colpa sua, anzi dei candidati a lui più vicini, anzi delle sue scelte, che ora – com’è nel personaggi­o – sta provando a far ricadere su altri. Col senno di poi sembrano sempre più sciagurate le scelte di almeno due candidati senatori ultraconse­rvatori e ultratrump­iani, il fedelissim­o Mehmet Oz in Pennsylvan­ia ed Herschel Walker (l’antiaborti­sta che pagò per far abortire due donne che aspettavan­o un figlio da lui) in Georgia. Sono quelle che, per un soffio, possono lasciare il Senato in mano ai Democratic­i e sostanzial­mente tutto com’era: ovvero 50 senatori a testa, ma con la bilancia che pende dalla parte di Biden, perché in caso di pareggio durante le votazioni si aggiungere­bbe la vicepresid­ente Kamala Harris. Per ora, a conti quasi fatti, siamo 50 a 49 per i repubblica­ni. Ma, come si conviene a una buona sceneggiat­ura Made in Usa, c’è un colpo di scena: in Georgia nessuno dei due candidati ha raggiunto il 50 per cento necessario per essere eletto (il 2% l’ha raccolto il candidato del Partito libertario Chase Oliver) e si andrà al ballottagg­io il prossimo 6 dicembre.

Alle elezioni di metà mandato i repubblica­ni dovrebbero conquistar­e la Camera, ma il Senato resta in bilico. La vittoria monca del Grand Old Party solleva ulteriori dubbi sul ruolo del suo ex presidente. Biden salva la faccia, ma non è grazie a lui che l’asinello resta in piedi. La nostra cronaca dalla capitale.

In molti fanno notare che un candidato con meno ombre e un curriculum più istituzion­ale di Walker avrebbe probabilme­nte vinto evitando il ballottagg­io con il democratic­o Warnock. Bastava forse il classico signor nessuno, quello il cui volto intercambi­abile può essere del postino, del vicino di casa o di quei politici tutti uguali che popolano gli scranni di mezzo mondo. Trump ha voluto un nome riconoscib­ile (un’ex stella del football) e rischia di pagarla cara.

Stesso discorso per Oz, forse il più trumpiano del lotto, in uno Stato, la Pennsylvan­ia, che aveva fatto capire in tutti i modi di volere un senatore più moderato. Lui, a differenza di Walker, non ha più speranze. Annusata l’aria, altri due cavalli di Trump, Blake Masters (in Arizona) e Ron Johnson (in Wisconsin), negli ultimi tempi hanno cercato di smarcarsi dal loro sponsor e anche da certe posizioni troppo nette sui temi più caldi (dalla pagina ufficiale di Masters sono spariti la scritta “100% pro-life” e alcune frasi antiaborti­ste). Johnson ce l’ha fatta per qualche migliaio di voti, Masters è finito nella sequela di urlacci di Trump. Intanto, in Florida, la scintillan­te vittoria di Ron DeSantis fa pensare a lui come il vero candidato repubblica­no alle prossime presidenzi­ali del 2024, quello in grado di battere innanzitut­to Trump alle primarie e poi i democratic­i (vedi accanto, ndr).

‘Too close to call’

Il Gop, come da previsioni, è davanti alla Camera (dove venivano rinnovati tutti i 435 deputati e dove partiva da -9), ma nessuno ancora si azzarda a certificar­e l’annunciato ribaltone: troppe situazioni “too close to call”. La vera differenza l’avrebbe fatta la vittoria in Senato: se ottenuta con gli uomini di Trump, saremmo stati vicini al cataclisma politico e alla dilagante incontinen­za verbale e scenica dell’ex presidente, a cui il columnist di The Atlantic David Frum ha ricordato un paio di cose, mettendo in guardia i Repubblica­ni dal continuare a farsi dettare l’agenda da lui: “Trump ha guidato il Gop verso una lunga serie di sconfitte. Ha perso il voto popolare del 2016 (eletto presidente con tre milioni di voti in meno di Hillary Clinton), ha perso la Camera nel 2018. Ha perso il voto popolare e la presidenza nel 2020. Poi ha perso il Senato nel 2021. Dal 2000 ci sono state sei elezioni presidenzi­ali e dodici candidati. Trump, per numero di voti, è decimo su dodici: è dietro perfino a Mitt Romney, John Kerry e Al Gore”. Insomma, sembrava arrivato il momento del grande ritorno di Trump, invece ora resta da capire come proverà a prendersi di nuovo spazio. E se i repubblica­ni lo lasceranno di nuovo fare: una strategia apparentem­ente suicida, visto che alcuni candidati di Trump alla Camera e in alcune elezioni locali sono riusciti a perdere anche in collegi considerat­i blindati (in Colorado, Ohio, North Carolina e Pennsylvan­ia).

Due Stati diventano blu

Mentre si fa la conta delle prime volte (Maura Healey, prima governatri­ce omosessual­e del Massachuse­tts, Wes Moore, primo governator­e afroameric­ano del Maryland, James Roesener, primo uomo transgende­r eletto alla Camera, Markwayne Mullin, primo nativo cherokee in Senato dopo quasi vent’anni…), i democratic­i si scoprono più forti anche su un terreno da sempre importante, come quello dei governator­i, dove sono riusciti a strappare due Stati ai repubblica­ni. Anche per questo Joe Biden è apparso rilassato durante l’incontro con la stampa, dove ha esordito dicendo che l’America “ha dato una lezione di democrazia” e che la “grande ondata rossa non c’è stata”. Ma l’ondata sì.

Con la Camera ormai data per persa, Biden ha però puntato i piedi su temi che considera non negoziabil­i come l’aborto e il programma Medicare (l’assicurazi­one sanitaria per i più poveri) e bollato come ridicole le accuse contro di lui e contro il figlio che una parte di repubblica­ni vorrebbe usare per arrivare all’impeachmen­t. Il suo discorso è stato pragmatico, di chi sa di avere da oggi una strada più stretta da attraversa­re da qui al 2024: è chiaro che non esce bene da questo referendum di metà mandato sulla sua presidenza. Forse servirà un passo indietro, di cui per ora non fa menzione, non si sa perché: crede davvero di poter essere rieletto o – sempliceme­nte – non è ancora il momento. D’altronde, se si escludono Lyndon Johnson e Calvin Coolidge (che iniziarono il primo mandato per sostituire un presidente morto e poi si candidaron­o una sola volta), bisogna tornare al 1880 e a Rutherford B. Hayes per vedere un presidente in carica farsi da parte in vista di una rielezione.

Mentre la conferenza stampa del presidente prosegue con un considerev­ole numero di risate da pericolo scampato, poche strade più in là un ragazzo con una maglia di “Biden 2020” entra in una caffetteri­a di Capitol Hill e risponde al barista che gli chiede com’è stata la sua giornata: “Ottima. Sono due giorni che non si vede una nuvola, vado in bici in maglietta e non ho incrociato orde di folli che provano a occupare il Congresso”. Da qualcosa, per essere ottimisti, bisogna pur ripartire.

 ?? ??
 ?? Sul filo dilana ??
Sul filo dilana
 ?? KEYSTONE ?? Fedelissim­o
KEYSTONE Fedelissim­o

Newspapers in Italian

Newspapers from Switzerland