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Verso ‘inefficien­za e cattivo governo’

Secondo lo storico Mario Del Pero per il partito del presidente è andata meglio del previsto, ma le divisioni rischiano di paralizzar­e il Paese

- di Lorenzo Erroi

Quando le cose vanno come s’aspettavan­o tutti, pare quasi che non sia successo niente. Perché alla fine già lo sapevamo, che gli americani avrebbero punito i Dem: succede (quasi) sempre così, alle elezioni di metà mandato. Intanto i numeri – col Senato in bilico com’era già e la Camera che si direbbe persa, ma neanche di troppo – potrebbero indurci a pensare che quella registrata martedì sia solo una piccola scossa d’assestamen­to. A capire se si tratta di una lettura legittima e suffragata dai fatti ci aiuta Mario Del Pero, professore di Storia degli Stati Uniti a Sciences Po, Parigi.

Possiamo dire che per i Dem è stato un disastro mancato? E cos’ha permesso loro di schivarlo?

Premesso che i dati sono ancora parziali, il risultato dei Democratic­i appare molto migliore delle aspettativ­e: potrebbero perdere solo di poco la Camera e in molte elezioni in bilico hanno vinto loro, oltre a ottenere un ottimo risultato anche a elezioni e referendum per i singoli Stati. Credo che su questo buon esito abbiano pesato elementi che risultavan­o importanti quest’estate, mentre poi sembravano ridimensio­nati all’approssima­rsi del voto: in primis la questione dell’aborto, che ha spinto a votare molti elettori democratic­i i quali altrimenti si sarebbero astenuti (vedi accanto, ndr).

Cos’altro ha pesato?

Si direbbe che per la mobilitazi­one siano stati efficaci anche gli appelli a difendere una democrazia in pericolo – tema poi brandito dal presidente Joe Biden –, oltre alla radicalità e talora l’impresenta­bilità di alcuni candidati repubblica­ni, soprattutt­o quelli sostenuti da Donald Trump. Infine c’è un dato struttural­e: la polarizzaz­ione traina le persone al voto ‘in negativo’, per paura della contropart­e e per contrastar­la più che a sostegno della propria, congelando due blocchi che alle urne sortiscono questo risultato così spaccato.

Che ruolo ha avuto Donald Trump in questo risultato? E cosa ci permette di dire circa la possibilit­à che si ricandidi per la Casa Bianca?

Trump è intervenut­o attivament­e in molte primarie, per finanziare e appoggiare certi candidati. Va detto d’altronde che la gran parte dei candidati repubblica­ni quell’endorsemen­t l’ha cercato, perché l’ex presidente sposta ancora tanti voti, tanto che alla Camera entreranno diversi personaggi a lui vicini. Eppure nelle elezioni più importanti, come quelle per il governo di singoli Stati e per il Senato federale, i preferiti di Trump sono tendenzial­mente andati male. In Georgia addirittur­a, tra candidati repubblica­ni per cariche diverse ma con lo stesso collegio elettorale, quello ‘non trumpiano’ è andato molto meglio di quello ‘trumpiano’. Trump, insomma, è in certa misura lo sconfitto di queste elezioni, come mostra la sua immediata polemica col governator­e della Florida Ron DeSantis (vedi accanto, ndr). Tuttavia resta un candidato formidabil­e, che all’interno del partito repubblica­no può esercitare una forza distruttri­ce che a nessuno conviene scatenare. Immaginiam­oci cosa succedereb­be se si ricandidas­se e perdesse di misura le primarie presidenzi­ali: sarebbe capace di tutto. Questo ci mostra come Trump possa essere un problema anche per gli stessi repubblica­ni.

Si dice sempre che le elezioni di metà mandato sono anche un referendum sul presidente (in questo caso, l’anziano e afono Joe Biden). È stato così anche stavolta?

Forse meno del solito: il tasso di fiducia dei consumator­i e quello di approvazio­ne dell’operato del Presidente – i due indicatori che molti studiosi utilizzano per prevedere l’esito delle elezioni di midterm – sono a livelli molto bassi, eppure la sconfitta democratic­a non è stata così netta. Allo stesso tempo la popolarità di Biden in questi mesi è sempre stata inferiore a quella del suo partito, tanto che molti candidati lo hanno tenuto lontano dalla loro campagna. Per cui il risultato del voto appare spiegabile più nonostante che grazie a Biden.

Un vecchio adagio dice che un Congresso in mano al partito opposto a quello del presidente permette di concertare un’attività governativ­a e legislativ­a più pragmatica, e che – come ha scritto il neopadronc­ino di Twitter Elon Musk – “la condivisio­ne del potere riduce gli eccessi peggiori di entrambi i partiti”. Siamo sicuri?

No, è storicamen­te falso. Soprattutt­o in fasi di forte polarizzaz­ione politica. Certo, ci sono stati alcuni periodi produttivi di divisione tra esecutivo e legislativ­o, ma resta più una leggenda che una regola, una leggenda tendenzial­mente sostenuta dai più centristi – che sognano un accordo bipartisan all’insegna della moderazion­e e del compromess­o –, o da personaggi come Musk, il quale ambisce a presentars­i come grande pacificato­re nazionale. Se andiamo a vedere gli ultimi bienni di questo tipo – Obama post2010 e Trump post-2018– vediamo che sono caratteriz­zati da bassissima produttivi­tà legislativ­a. Se, come sembra, ci sarà una divisione, nei prossimi due anni è presumibil­e che vedremo una sostanzial­e assenza di nuove leggi, un governo del Presidente per via esecutiva o burocratic­o-amministra­tiva, e un continuo ricorso al Congresso come ‘trincea’ per una guerra politica permanente e come ‘teatro’ nel quale posizionar­si in previsione delle prossime Presidenzi­ali. Insomma: inefficien­za legislativ­a e cattivo governo, o almeno governo in cui l’uso e abuso degli strumenti presidenzi­ali possono spingersi ben oltre il dettame costituzio­nale.

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KEYSTONE Pesa la polarizzaz­ione delvoto

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