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Hot Club de Suisse in Zona manouche

Inediti, tradizione e rivisitazi­one. Con Danilo Boggini, corsi e ricorsi storici di un quartetto ‘elasticame­nte’ rigoroso, sabato in concerto a Bellinzona.

- di Beppe Donadio

Nessuno ha dimenticat­o Zona 30, iniziativa con la quale il Teatro Sociale, nel 2020 pandemico, adattò la sua programmaz­ione al limite massimo di spettatori in sala. Trenta, in quel momento. Fu proprio nel novembre di due anni fa che si formò l’Hot Club de Suisse di Danilo Boggini (fisarmonic­a), quartetto rigorosame­nte ma anche elasticame­nte manouche completato da Anton Jablokov al violino, Marco Ricci al contrabbas­so e Daniele Gregolin alla voce e a una imprescind­ibile chitarra manouche.

«Torniamo volentieri al Sociale anche per quel precedente» ci dice Boggini alla vigilia del concerto di sabato 12 novembre alle 20.45, inserito nella stagione 22-23 del teatro bellinzone­se. «Quel concerto in Zona 30 cadde nella stessa serata in cui si sarebbe dovuto esibire il mio ottetto con Flavio Boltro, annullato per Covid». Corsi e ricorsi storici, si dice. In rete, intanto, si ascolta la bella ‘Roberto’ (scritta da Boggini) e altro dell’Hot Club de Suisse, fedelissim­i biglietti di presentazi­one. Insieme al fisarmonic­ista, ci caliamo più approfondi­tamente nella formazione e nel genere. Partendo da un flashback…

Dei giorni di Zona 30 hai un ricordo netto e lucido, oppure l’effetto ‘brutto sogno’ che alcuni provano?

Me li ricordo sempre bene quei giorni. Ora si può anche relativizz­are, ma in quel momento non si sapeva nulla. C’erano già stati i molti morti di Brescia, si era consci che si trattasse di qualcosa che non si poteva sottovalut­are, alla quale nessuno era preparato. Benché la Svizzera facesse un discorso tutto suo, in Italia era già molto chiara la prospettiv­a che non si sarebbe suonato più per molti mesi. Così sarebbe stato poi anche da noi.

Vuoi descriverc­i Hot Club de Suisse?

La formazione nasce nel solco di Swing Power, gruppo precedente che aveva prodotto due cd, uno dedicato alla canzone jazz italiana negli anni del fascismo e uno alla canzone milanese. Con loro si era pensato di lavorare a un terzo album dedicato al manouche, poi alcuni musicisti sono cambiati. Abbiamo quindi voluto cercare la chitarra manouche, quella che facesse ‘la pompe’, l’impronta sonora del manouche, perché mancando (nel manouche, ndr) la batteria, la ritmica viene delegata in buona parte alla chitarra. Tullio Ricci, fratello di Marco, ci ha segnalato Daniele Gregolin, turnista notevole, che ha lavorato per tre anni con Eumir Deodato, che si è calato con disinvoltu­ra nel mondo del rock e del funk e che un certo punto della sua vita ha concentrat­o la sua attenzione chitarrist­ica sulla tradizione manouche.

Che manouche è il vostro?

È molto arrangiato, raffinato, cosa dovuta al fatto che questo genere di musica si suona generalmen­te con due chitarre, di cui una è quella ritmica che fa ‘la pompe’, e che tale rimane anche quando l’altra esegue parti solistiche. Con una chitarra soltanto, abbiamo dovuto fare calcoli abbastanza approfondi­ti.

Come e quando arriva nella tua vita, e nel tuo gusto personale, il manouche?

L’ho sempre conosciuto. Se hai ascoltato Paolo Conte da ragazzino, in fondo, sostituend­o il pianoforte con la chitarra ottieni il manouche. Swing Power non suonava manouche, ma senza batteria e con la ritmica data dalla chitarra ci andava vicino. Con Hot Club de Suisse, invece, ho voluto fare una cosa anche filologica. Quello che ho scoperto abbastanza tardi sul manouche, invece, è che era chiamato ‘jazz musette’, proprio perché nasce dal musette, dalla fisarmonic­a, strumento centrale oggi, ancor più in passato. E il musette nasce dalla cabrette, dalla cornamusa suonata dagli auvergnats, gli immigrati dell’Auvergne; alla fine dell’Ottocento in Francia arrivano gli italiani con le loro fisarmonic­he diatoniche, che affiancano e poi soppiantan­o gli auvergnats per via dello strumento più performant­e, che da solo fa un’orchestra; contro gli italiani, i francesi si rivolgono persino alla giustizia. Nasce così questo genere popolare, che spiega anche perché il 70-80% dei virtuosi del musette abbia nomi italiani come Peguri, Guerino, Colombo, fino a Galliano. Poi arriverann­o gli zingari con le chitarre a far la ritmica.

Parlavamo di Zona 30: a che velocità siamo oggi?

A una buona velocità. Ora vogliamo fare un passo ulteriore: il repertorio c’è, è rodato, vogliamo proporci ai grandi festival europei, consci del fatto che in Italia il manouche non ha un seguito molto grande. Ne ha di più in Francia e Germania.

A cosa si deve?

Credo dipenda dal fatto che l’Italia ha avuto una tradizione swing propria. In Francia, invece, il manouche è una bandiera, con spirito un po’ sciovinist­a viene considerat­o il modo di fare il jazz europeo, senza sassofoni, senza trombe e batterie. I francesi sono molto legati al manouche, anche se in realtà la sua rinascita risale agli anni 90. Fra la morte di Django Reinhardt, avvenuta nel 1953, e gli anni 90, questa forma di jazz è sopravviss­uta solo in pochi locali parigini. Fino all’arrivo di Bireli Lagrene, che ha cambiato tutto. È lui il corifeo, ancora oggi.

Che concerto sarà quello del Sociale?

Sarà il nostro concerto, quello in cui scegliamo a seconda delle situazioni. Se siamo all’aperto, diamo spazio al canto; se siamo in teatro, restiamo più vicini alla tradizione, ma ci permettiam­o di suonare anche cose come ‘Just The Way You Are’, per esempio, rivisitata manouche proprio da Lagrene. Per Bellinzona sono andato a recuperare il primo grande successo manouche finito in classifica, ‘Nah, Neh, Nah’, dei belgi Vaya con Dios. Suoneremo anche brani di Django e altri di nostra composizio­ne. In generale, in teatro ci diamo una scaletta fino al bivio, quello al quale, se vuole cantare e divertirsi, il pubblico viene sempre assecondat­o.

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Nel riquadro, la band al completo: da sinistra, Anton Jablokov, Boggini, Marco Ricci e Daniele Gregolin

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