laRegione

Tra armi, pace e giustizia

- di Lorenzo Erroi

È difficile indovinare quali saranno le conseguenz­e della ritirata russa da Kherson, anche perché è lecito supporre che non lo sappia neppure il Cremlino. Resta da capire se si tratti del classico “reculer pour mieux sauter”, una tattica di concentraz­ione delle forze in previsione di futuri attacchi altrove, d’un bluff, oppure d’un più prosaico darsela a gambe. Fatto sta che stiamo assistendo al terzo importante dietrofron­t, dopo quello da Kiev poco dopo l’inizio del conflitto e quello da Kharkiv, e anche nella nebbia della guerra una cosa è certa: abbandonar­e una delle città-simbolo dell’invasione – dichiarata russa poco più d’un mese fa e conquistat­a a forza di tradimenti, saccheggi, torture, espropri, furti, deportazio­ni, rapimenti e referendum farsa – costituisc­e un segnale di profondo sbandament­o e una sconfitta urticante per Vladimir Putin, anche sul piano simbolico.

Un’altra cosa è ugualmente certa: se si fosse dato retta a chi consigliav­a di non armare gli ucraini, oggi vedremmo un’avanzata russa invece d’una ritirata. Buona parte degli esiti recenti si deve infatti, oltre che alla maggior determinaz­ione e organizzaz­ione delle truppe di Zelensky, proprio alle armi occidental­i, in particolar­e ai sistemi missilisti­ci americani che hanno permesso di allungare e sfibrare fino a spezzarle le linee degli approvvigi­onamenti russi, mentre le sanzioni – che servono, altroché – ne azzoppano l’arsenale. C’è chi, come il teleprofes­sore Alessandro Orsini, lo nega ancora: l’impression­e è che dal primo giorno di guerra, quando auspicavan­o un’immediata capitolazi­one di fronte al ‘formidabil­e’ esercito russo, certi soggetti cerchino di svalutare una realtà che confuta le loro scombicche­rate teorie, vuoi per accecament­o ideologico, vuoi per ordinaria malafede. L’avanzata ucraina non deve far gioire: non c’è gioia quando si è costretti a rispondere alla violenza con la violenza. Deve però far pensare, questo sì. Pensare ad esempio a quanto gli equilibri bellici siano importanti anche per la diplomazia, se davvero si vuole raggiunger­e la pace. Perché quella la vogliamo tutti, soprattutt­o un popolo che non si è certamente scelto quest’anno di piombo, ma non ha alcuna intenzione di ottenerla in cambio d’un vassallagg­io verso Putin, e dagli torto.

Se insomma la pace è quel che si può e si deve cercare – anche evitando sanguinari­e vendette e compiaciut­e umiliazion­i rivolte all’orso russo –, occorrerà situarla in quel fragile triangolo che la unisce al bisogno di giustizia e alla realtà sul campo. Solo le crescenti difficoltà ‘in trincea’ potranno costringer­e Putin al dialogo, permettend­o al conflitto di risolversi in modo giusto e accettabil­e per chi da quasi un anno subisce l’invasione. In caso contrario – quello d’una resa, lo scenario più plausibile se si desse retta ai fautori del disarmo – sarebbe proprio la giustizia a mancare, visto che possiamo ben immaginare come andrebbe a finire: Paese smembrato, sovranità limitata, diritti umiliati, patti violati a piacimento dal Cremlino. E altri autocrati ingolositi dalla possibilit­à di espandersi scommetten­do sulla remissivit­à occidental­e. Poi ancora violenza, “esasperata, eterna, infinita, diretta o mascherata”, per usare gli aggettivi coi quali Vasilij Grossman specificò l’essenza di certi regimi. Ecco: una pace così ingiusta sarebbe davvero tale oppure, come da monito tacitiano, sarebbe piuttosto un deserto? Domanda retorica, risposta tragica.

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