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Il boss della ’ndrangheta dietro il rapimento

Così i pm. Il caso coinvolse pure il ticinese Libero Ballinari

- di Marco Marelli

Il sequestro di Cristina Mazzotti – la 18enne studentess­a milanese sequestrat­a il 1° luglio 1975, a pochi metri dalla casa di Eupilio, sopra Erba, e morta a causa delle condizioni in cui era stata segregata (in una buca dove non poteva muoversi) dai carcerieri, fra cui il ticinese Libero Ballinari – è stato ideato da Giuseppe Morabito, 78enne boss della ’ndrangheta calabrese, residente a Tradate, capo della cosca Morabito, conosciuto come ‘u tiradrittu’ (tradotto dal dialetto calabrese: spara dritto, buona mira, che spara senza rispetto di alcuna regola o persona), considerat­o il numero uno della criminalit­à organizzat­a calabrese. Del coinvolgim­ento del boss ’ndrangheti­sta nel rapimento di Cristina Mazzotti, una delle pagine più tragiche legate alla stagione dei sequestri di persona in Italia, si è avuta notizia dopo che la Procura di Milano ha inviato a quattro indagati l’avviso di chiusura delle indagini con l’accusa di concorso in omicidio volontario aggravato dalla crudeltà. Dall’avviso di chiusura delle indagini firmato dal pm Stefano Civardi, sostituto della Procura di Milano, si viene a sapere che il sequestro di Cristina Mazzotti oltre che da Giuseppe Morabito era stato ideato da altri due boss della ’ndrangheta radicata nel Varesotto, Giacomo Zagari (nel frattempo deceduto, coinvolto in altri rapimenti), Francesco Aquilano (pure lui deceduto). Il provvedime­nto – che prelude a una richiesta di processo – oltre che a Giuseppe Morabito è stato notificato a Demetrio Latella, Giuseppe Calabrò e Antonio Talia. Gli ultimi tre, unitamente ad altri complici mai identifica­ti, sono indicati come gli autori materiali del rapimento, personaggi della vecchia ‘mala’ milanese, legati alla ’ndrangheta. Cinquanta milioni di lire il loro compenso.

Le indagini, la confession­e e il ritrovamen­to

Una impronta digitale sulla Mini sulla quale si trovava Cristina che assieme a un amico e un’amica stava tornando a casa dopo aver festeggiat­o il compleanno in un bar di Erba, consentì nel 2007 di risalire a Latella che ha sempre ammesso le proprie responsabi­lità chiamando in causa Calabrò e Talia. La posizione del terzetto nel giugno 2012 dai giudici di Milano è stata archiviata nel presuppost­o giuridico che, oltre al prescritto sequestro di persona, anche l’omicidio volontario aggravato sarebbe stato prescritto.

Le indagini sul rapimento della studentess­a sono state riaperte all’inizio dell’anno, sulla base di una sentenza delle sezioni riunite della Corte di Cassazione che ha stabilito che non c’è prescrizio­ne per l’omicidio volontario aggravato. Gli autori materiali del rapimento di Cristina Mazzotti erano già finiti sotto processo sul quale era calata la cesoia della prescrizio­ne. Nei precedenti procedimen­ti non c’era traccia di Giuseppe Morabito. Dal prossimo processo potrebbero emergere fatti nuovi. Soprattutt­o sulla fine che ha fatto il riscatto pagato per la liberazion­e della studentess­a milanese, il cui corpo era stato ritrovato la sera del 1° settembre del 1975, nella discarica di Galliate, in provincia di Novara.

Le condanne luganesi

Un ritrovamen­to reso possibile dalla confession­e di Libero Ballinari, contrabban­diere ticinese, uno dei carcerieri della 18enne, che in una banca di Ponte Tresa aveva depositato 56 milioni di lire, soldi provenient­i dal riscatto di 1 miliardo e 50 milioni di lire pagato da Helios Mazzotti per la liberazion­e della figlia. Ballinari, messo alle strette dal delegato di polizia di Lugano Gualtiero Medici, aveva raccontato che il corpo di Cristina era stato sepolto nella discarica a Galliate (Novara), sotto una carrozzina. Un racconto supportato da un disegno della discarica di Galliate. Libero Ballinari e il direttore della banca di Ponte Tresa sono stati condannati a Lugano. A sostenere l’accusa il procurator­e Paolo Bernasconi.

Nel 1977 in Corte d’Assise a Novara, tredici condanne (otto gli ergastoli). Otto dei condannati fra cui Libero Ballinari nel frattempo sono deceduti. Una tragica vicenda non ancora chiusa.

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TI-PRESS Una tragica vicenda non ancorachiu­sa

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