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Gino La Rocca

- DI CHIARA CAMPONOVO FOTOGRAFIE © TI-PRESS / PABLO GIANINAZZI

Classe 1944 e un nome che sembra quello di un divo del cinema degli anni Trenta. Gino è nato in Calabria, a Frascineto, insediamen­to albanese in territorio italiano. Poche classi di scuola elementare e poi il lavoro che lo ha portato in Ticino nel 1961. Da oltre 40 anni Gino coltiva l’orto che sovrasta la trincea della ferrovia, all’altezza del ponte tra Lugano e Massagno. Uno spazio di resistenza che cura con ingegno, intuizione, e fatica. Dice che prima o poi lo lascerà. Ma per ora non si è ancora stancato.

Ci siamo dati appuntamen­to alla vecchia maniera, di persona, un giorno in cui passavo da Via del Ponte. “Vengo domani mattina alle 8 meno un quarto, d’accordo? Così mi racconta la sua storia”. Nessuna conferma via messaggio WhatsApp o roba del genere. E ho quasi il dubbio che il giorno dopo lui non ci sarà. Ma l’indomani Gino c’è. Fa capolino da dietro un filare di zucchine trombetta. È lì, come ogni giorno, nell’orto situato ai margini della ferrovia, sopra quella che tutti da sempre chiamiamo la trincea di Massagno.

Il Mediterran­eo a Massagno

Non c’è un vero cancello: si scavalca la parte bassa della recinzione e si entra in un piccolo universo meraviglio­so dove il primo odore che colgo è quello del letame che si sta sciogliend­o nell’acqua. Siamo all’inizio di ottobre, il sole è arrivato da poco, fa fresco, fra qualche settimana a quest’ora qui ci sarà la brina, ma per ora si coltiva ancora. “Vede che bel sedano?”, mi dice Gino con malcelato orgoglio, invitandom­i a guardare sotto la stoffa bianca leggera che copre una piccola serra improvvisa­ta.

“Sta crescendo bene. E qui c’è ancora l’insalata. L’ho appena piantata, fa caldo, siamo ancora in tempo”.

L’accento di Gino è quello del Sud Italia: Calabria, provincia di Cosenza. Il villaggio dove è nato si chiama Frascineto... “È un paese fondato da albanesi, italiano e albanese da sempre, mica come accade con gli arrivi di oggi che cambiano tutto e la gente si arrabbia. Io l’albanese l’ho sempre parlato, ma non è lo stesso di quello di oggi, il mio è il vero albanese”. Gli credo sulla parola. Gino è giunto in Svizzera nel 1961: ha lavorato dapprima per dieci anni come stagionale in una pensione di Via Tesserete.

Poi una parentesi al Bar Liceo di Viale Cattaneo con permesso annuale. In seguito una vita da operaio in una fabbrica di strumenti chirurgici a Mezzovico. Abita in questo quartiere tra Lugano e Massagno dagli anni Settanta. “All’inizio vivevo nella Casa della pasta, in Via Lisano. Pensi che nell’appartamen­to non c’era nemmeno il bagno, solo un gabinetto, il bagno con la vasca l’ho costruito io”. Il matrimonio, tre figlie femmine, i nipoti, e la vita.

E tanto lavoro. “Ho sempre voluto lavorare. A scuola sono andato poco, solo qualche classe delle elementari, poi la scuola serale. I miei figli mi criticano perché quando scrivo a volte sbaglio, non metto le doppie. Poco importa, me la sono cavata bene”.

Una vita nell’orto (altro che vacanze)

“E all’orto come ci è arrivato?”, chiedo. “È un orto vecchio cent’anni. Quando sono giunto nel quartiere lo tenevo d’occhio, mi interessav­a, ma lo avevano promesso a qualcun altro, un bergamasco. Poi il tizio è morto, poverino, è morto giovane, e allora l’ho preso io”. E non lo ha più lasciato questo orto. Oltre 150 metri quadri suddivisi in piccoli spazi, apparentem­ente disordinat­i: il cavolo nero, le coste, le rape, il sedano, le zucchine trombetta, i peperoncin­i. Qui le cose crescono come possono ma anche un po’ come vogliono: un mix di manualità metodica, casualità e anarchia. Capita che le piante di zucca si avventurin­o al di là della recinzione e scendano verso i binari della ferrovia. “Le devo tirare su. Se una zucca bella grossa arrivasse sui binari dovrebbero fermare i treni”. Me la vedo la situazione, un poco inverosimi­le, ma quanto sarebbe bello se accadesse davvero. Notizia del giorno: treni fermi per una zucca di Gino La Rocca caduta sui binari.

Ma non pensiate che sia poesia, l’orto di Gino. Qui si suda e si prende pure rabbia: “Vede quel fico nell’angolo? L’ho piantato perché mi piacciono i fichi, e sa cosa succede? Quel maledetto i fichi li fa, ma poi non maturano mai. Allora quest’anno gli ho detto: tu mi fai piangere? Questa volta ti faccio piangere io. L’ho potato tutto, e adesso vedremo che cosa farà”. Gino sta litigando con il fico. Mi scappa un po’ da ridere, ma non oso. È serio.

“Io per questo orto non vado mai in vacanza. A volte gli amici mi dicono che possono venire loro a lavorare al mio posto ma non è mica così scontato. Quando manco anche solo per qualche giorno le piante cambiano, non sono contente. Sono abituate alla mia presenza, a come le bagno, a come lavoro la terra. Se viene qualcun altro poi non cresce più nulla. È già successo, mi creda”. Anche a me vien da dire che ci potrei venire io a coltivare il suo orto, se avesse bisogno. Lui ridacchia, eccone un’altra che sogna.

Mi spiega che solo per prendere l’acqua per bagnare bisogna tirare la canna fin dall’altra parte del ponte. Ogni giorno. Insomma, vengo rimessa al mio posto.

Arrivederc­i…

Del futuro di questo orto si sa poco. Ogni tanto i giornali evocano la copertura della trincea di Massagno: le immagini rendering promettono spazi felici con alberi nati già alti, bimbi che giocano, studenti indaffarat­i e sedute di yoga sui prati. L’orto di Gino non è contemplat­o. Lui non si preoccupa: “Chissà dove sarò fra qualche anno...”, dice sorridendo.

Capisco che il mio tempo è scaduto. Gino si gira per salutare una signora venuta a cercare delle foglie di cavolo nero e un mazzetto di erba cipollina. Qualche chiacchier­a ancora, coperta dal rumore del cantiere di un palazzo che sta sorgendo qui accanto, al posto di una casa unifamilia­re di cui nessuno si ricorda già più. Scavalco il cancello, esco. Un’ultima occhiata alla recinzione dove Gino ha appeso dei girasoli secchi, cibo per gli uccellini.

Saluto e me ne vado. Il sole adesso è quasi alto. Guardo Gino da lontano, scambia qualche chiacchier­a con gli operai del cantiere e poi si avvia verso casa. Tornerà tra qualche ora. Il suo orto, Gino, non lo può lasciare solo per troppo tempo. E viceversa.

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