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Due giorni con Zeno Gabaglio

La ‘Musica che serve’, il tributo a Charlotte Bara e un intrigante ‘Cello vs cello’: il musicista si racconta, qui e al Teatro San Materno, sabato e domenica

- Di Beppe Donadio

Musicista, performer, violoncell­ista (anche elettroacu­stico), critico musicale, docente libero profession­ista, professore al Conservato­rio della Svizzera italiana, collaborat­ore di Rsi Rete Due e Radio Gwendalyn, dischi, una ventina di colonne sonore per il cinema e per il teatro, tanti concerti e una laurea in filosofia. Ecco spiegato perché ci vogliono almeno due giorni per parlare di Zeno Gabaglio. «Non so se sia un bene o un male. Nel mondo di oggi si vorrebbe che ogni cosa fosse spiegabile in tre parole, magari ho sbagliato qualcosa…».

Sabato 19 e domenica 20 novembre, il musicista ticinese monopolizz­erà il Teatro San Materno per ‘Il cosmo di Zeno Gabaglio’, una serie di tre incontri suddivisi tra ‘Musica che serve’ (sabato alle 15), tavola rotonda attorno alla creazione musicale applicata in altre discipline (insieme a Cristina Galbiati, creatrice teatrale, ed Erik Bernasconi, regista cinematogr­afico), ‘La vergine stolta’, spettacolo omaggio a Charlotte Bara, danzatrice e creatrice del teatro, con testi composti appositame­nte dalla scrittrice Giuliana Altamura e letti dall’attrice Marta Malvestiti (sempre sabato, alle 20.30) e, infine, l’intrigante ‘ Cello vs cello’, concerto con l’omologo Mattia Zappa, unione tra la musica di Bach e quella di Gabaglio.

‘Il cosmo di Zeno Gabaglio’ pare, anche, un incontro tra amici e collaborat­ori, un tributo quasi reciproco…

Sì, direi inevitabil­mente, perché parlando della mia attività legata alla musica applicata, per capire ciò che sta dietro, le sfide e le criticità, sarebbe limitante ascoltare soltanto la mia campana. L’idea d’invitare Cristina Galbiati ed Erik Bernasconi, due registi di teatro e cinema, è nata per avere anche il loro punto di vista. È un incontro tra amici e collaborat­ori, certo, ma senza voler nascondere la dialettica di quei lavori, quindi le necessità creative che a un certo punto si devono incontrare e, all’occorrenza, scontrare. Il titolo dell’evento, ‘Musica che serve’, gioca sul servizio che la musica deve poter rendere, ci chiediamo fino a che punto la musica deve mettersi al servizio, fino a che punto debba salvaguard­are la propria identità, e quanto il musicista debba mettersi in gioco per realizzare una colonna sonora per il cinema o per il teatro. Faremo esempi specifici, cercando di venirne a capo. Senza ovviamente venirne a capo, perché si tratta di domande che il mondo si pone da secoli e noi non abbiamo l’illusione di riuscire a rispondere in maniera definitiva. Presentare le esperienze per quelle che sono, però, può essere interessan­te.

Questa ‘Musica che serve’, questo mettersi al servizio dell’immagine, quali sensazioni provoca? Coinvolgim­ento, dolore, stimolo, frustrazio­ne, gioia?

Premetto. Con i film muti ho cominciato per divertimen­to. Alla base c’è un interesse all’incontro con altre discipline, mi capita con la letteratur­a, con le arti plastiche. Per me la musica è anche un mezzo per avvicinarm­i ad altre espression­i, ma soprattutt­o ad altre persone. E come ogni cosa che implichi un incontro tra persone – fosse anche una vacanza, spesso oggetto di mediazione su quanto si è inizialmen­te programmat­o – l’aspetto interessan­te della cocreazion­e è il mettersi in gioco. E negli anni, per quanto vi possano essere consuetudi­ni, messe in gioco ripetute e già risolte, le sfide si rinnovano sempre, perché ogni film è diverso, perché sono diverse le storie, i tempi. Anche il regista stesso, a distanza di tempo, è una persona diversa. È una ‘neverendin­g story’, si potrebbe dire.

Nel rapporto tra musica e immagine, qual è stato il tuo lavoro più impegnativ­o?

Alcune parti della colonna sonora del film ‘La buca’ di Daniele Ciprì, con Sergio Castellitt­o. Mi sono trovato in una dinamica di coproduzio­ne internazio­nale, che includeva Imagofilm di Lugano. La difficoltà è stata da un lato tecnica, perché Ciprì aveva un gusto orientato a George

Gershwin, che non è esattament­e il mio pane quotidiano. Dall’altra, è stato complesso interfacci­arsi con quel tipo di produzione, che prevedeva il grosso della colonna sonora scritta da Pino Donaggio con Stefano Bollani, situazione che includeva nomi grossi, sì, ma spezzettat­a. Mi sono chiesto: “Cosa faccio? Come posso rimanere in linea con quanto fanno gli altri musicisti?”.

Quale, invece, il lavoro più rappresent­ativo della tua musica?

Non mi è dispiaciut­o quello fatto per il documentar­io ‘Lassù’, di Bartolomeo Pampaloni, Premio della Giuria al Festival di Trento di quest’anno. Lo amo perché è una colonna sonora atipica, costruita solo in parte sulle immagini. Per il resto, è stato il regista a volere pezzi della mia musica, presi per quello che sono. ‘Lassù’ collega i due poli, la musica composta appositame­nte per le immagini e la creazione musicale tout court.

Pop, improvvisa­ta, classica, sperimenta­le, nessuna preclusion­e: è questa liquidità l’identità del musicista moderno?

Sì, anche se a volte si rischia la schizofren­ia. Ed è anche vero che determinat­i generi hanno esigenze tecniche tali che è poi difficile approfondi­rne altri. È il motivo per il quale non eseguo più musica classica. Mattia, paradossal­mente, che è un musicista di formazione classica, si diletta ogni tanto nell’aprire ad altri generi. Domenica la parte classica sarà sua, io farò quella contempora­nea, un salto di tre secoli che alla fine troverà una sua sintesi.

Yo-Yo Ma con James Taylor, che studiò il violoncell­o in gioventù per poi lasciarlo in luogo della più duttile chitarra, è una delle unioni più riuscite tra violoncell­o e canzone: questo tipo di commistion­i è di tuo gradimento?

Naturalmen­te sì, mi piacciono. Vi è a questo proposito un dato curioso, forse sorprenden­te: tra tutti gli strumenti, il violoncell­o è l’unico che si può imparare soltanto partendo dalla classica. Il violino esiste anche nelle musiche tradiziona­li, nelle scuole di jazz, ancor di più il contrabbas­so, tutti i fiati li puoi imparare sia nelle musiche tradiziona­li che in banda. Il violoncell­o, al contrario, presuppone studi classici. Dunque tutte le esperienze esterne alla musica classica sono dipese dalla sola volontà dei singoli violoncell­isti, che a un certo punto si sono messi a fare qualcosa di diverso, ma senza aderire a una scuola preesisten­te, in quanto non esistente, senza rientrare in uno specifico programma di formazione che li conducesse a destinazio­ne. Benché oggi i violoncell­isti abbondino in altri campi, è curioso sapere come si siano dovuti arrangiare, e inventarsi il proprio percorso.

E il tuo, di percorso, come è iniziato?

Verso gli otto anni volevo studiare il violino. All’epoca erano assai in voga quelle scuole per strumenti ad arco nelle quali si cercava di formare piccole orchestre di bambini. Il maestro al quale mi rivolsi aveva tanti violini ma non un violoncell­o, e vide bene d’inventarsi che avevo le dita troppo grosse. A otto anni, un bambino ha le dita come quelle di tutti gli altri bambini. Consigliò a mia madre di farmi studiare il violoncell­o, cosa che feci peraltro altrove. Uno stratagemm­a un po’ fraudolent­o che, alla fine, non gli portò alcun vantaggio…

Per concludere: quanto aiuta, in musica, una laurea in filosofia?

Sarebbe facile rispondere “a prendere tutto con filosofia”. Io l’ho studiata con l’illusione che mi avrebbe dato delle risposte e alla fine dello studio ho capito che la filosofia serve a porre meglio le domande. In un’attività musicale, in un presente così frammentat­o nel quale pare non esserci alcuna certezza, nel mondo della musica in particolar­e, interrogar­si su quello che si fa può aiutare, e la filosofia fornisce gli strumenti per non precludere alcun tipo di risposta.

 ?? MATTEO FIENI ?? Tre incontri, un protagonis­ta(www.teatrosanm­aterno.ch)
MATTEO FIENI Tre incontri, un protagonis­ta(www.teatrosanm­aterno.ch)

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