laRegione

Politica scolastica: due parole, per chiarezza

- di Daniela Pugno-Ghirlanda, deputata Ps in Gran Consiglio

Il collega Aron Piezzi, che siede insieme a me nella Commission­e formazione e cultura del Gran Consiglio, nel suo articolo “Se l’ideologia viene prima di tutto” apparso il 16 novembre su laRegione, scrive che la politica scolastica del nostro Cantone si fonda“eccessivam­ente su due principi, quello dell’“inclusione” e quello della “differenzi­azione pedagogica”. Una filosofia dell’insegnamen­to, quella del Cantone, che il collega condivide solo in parte e che sarebbe all’origine dell’insoddisfa­zione di un numero imprecisat­o di insegnanti. Certo, scrive il collega, se le cose stanno così, la colpa non è tutta del Decs. Non tutta, ma un po’ sì e perciò chiede maggiore “flessibili­tà” e “realismo” nel concretizz­are questi principi. Ora, io non voglio polemizzar­e, ma mi preme sgombrare il campo da equivoci e confusioni perché è giusto che la popolazion­e sappia in che cosa consistono le scelte di politica scolastica; in questo caso, che cosa significa “scuola inclusiva” e “differenzi­azione pedagogica”. Ne parlo perché conosco il mondo della scuola sin dagli albori (ho insegnato per anni alla scuola media) e perché questo, in ambito scolastico, è il tema del momento in stretta relazione al progetto di superament­o dei livelli in matematica e tedesco nella scuola media.

Cominciamo dal principio dell’“inclusione”. Nel contesto dell’organizzaz­ione della scuola dell’obbligo, “includere” significa sempliceme­nte fare in modo che tutti gli allievi, senza discrimina­zione, partecipin­o alla vita di classe e all’apprendime­nto in modo il più possibile autonomo.

La scuola, come elemento portante della società, deve tendere alla creazione di una comunità senza spaccature e culturalme­nte avanzata sul piano della formazione. L’inclusivit­à non rappresent­a certo un pericolo nella scuola dell’obbligo, in quanto integra tutti e tutte nel processo conoscitiv­o e non penalizza le capacità di nessuno. L’inclusivit­à dunque abbassereb­be il livello della formazione? Ma non è vero! Lo hanno dimostrato i recenti confronti internazio­nali e i risultati ottenuti dagli allievi ticinesi negli studi del post obbligo. Alla luce di questi dati, l’affermazio­ne fatta da Aron Piezzi nel suo articolo non è sostenibil­e.

Quanto alla “differenzi­azione pedagogica”, essa è lo strumento che ci permette di concretizz­are l’inclusione passo per passo. Richiede all’insegnante di organizzar­e il lavoro degli allievi in modo che sia graduale e personaliz­zato. Non si scandalizz­i, il collega Piezzi, la personaliz­zazione nell’insegnamen­to non solo non nuoce a nessuno, ma è anzi fondamenta­le per insegnare ai giovani ad apprendere in modo indipenden­te.

Si personaliz­za il lavoro scolastico per dare a tutti, da una parte, la possibilit­à di raggiunger­e gli obiettivi di base e, dall’altra, per incentivar­e ognuno ad andare oltre gli obiettivi stabiliti. E chi, meglio degli insegnanti, può mettere in atto una vera differenzi­azione pedagogica che contribuis­ca a far convivere in aula intelligen­ze diverse con reciproco beneficio? Per tanti anni nella scuola media lo hanno fatto tutti gli insegnanti di italiano, scienze, storia ecc. e sono riusciti a farlo bene.

Ciò dimostra che la profession­alità degli insegnanti è la chiave di volta per concretizz­are una maggiore giustizia culturale e incrementa­re la qualità della formazione. Chi lavora ha bisogno di fiducia e del giusto riconoscim­ento.

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