laRegione

Il calcio siamo noi (nessuno si senta escluso)

Esce ‘Il secolo breve del calcio mondiale’ di Stefano Marelli, una carrellata di epoche, abitudini, personaggi, vicende del gioco più popolare di sempre

- Roberto Scarcella

Lo capisci già dal titolo, ‘Il secolo breve del calcio mondiale’ (che si rifà al celebre manuale di storia di Eric J. Hobsbawm) che qui si parla di calcio per non parlare solo di calcio.

Le pagine del libro di Stefano Marelli entrano ed escono dal campo, dallo stadio e perfino dal Paese che ha ospitato questo o quel Mondiale, per raccontarc­i epoche, abitudini, personaggi, storie che sono uniche e allo stesso tempo replicabil­i all’infinito: il capitano della Francia che diventa killer per i nazisti, l’arbitro brasiliano che si mette a menare in campo come un buttafuori da discoteca, l’allenatore che sbaglia i cambi decisivi, lo sceicco che entra in campo per cambiare un risultato, il giocatore marxista e quello menefreghi­sta. E poi – all’opposto – la Guerra Mondiale, il fascismo e le dittature sudamerica­ne, la caduta del Muro, il calcio che da strumento politico diventa politica lui stesso. Le piccole storie e la Storia con la S maiuscola, il microscopi­o e il telescopio. Così Marelli adatta la propria penna allargando e restringen­do il campo, restituend­oci il senso del gioco più popolare tra gli esseri umani, e quello che sembrerebb­e il contorno e invece è l’essenza di ogni momento storico, pallonaro e non. D’altronde, se – come dice José Mourinho – “chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio”, viceversa, chi non sa niente di calcio, soprattutt­o dei Mondiali, fa più fatica a capire, mettere insieme il puzzle di quello che è successo, di quel che siamo stati in questi ultimi 90 anni. Meglio dare una bella ripassata con questo libro.

Stefano, il tuo libro è fatto soprattutt­o di ritratti di persone che finiscono dentro a una storia più grande di loro, calcistica e non solo, e in qualche modo emergono. Perché siamo così attratti da singole storie tanto da farle diventare simbolo e riassunto di eventi planetari come il Mondiale?

Probabilme­nte perché le storie personali, a differenza delle grandi tematiche politiche, sono di più facile comprensio­ne per chiunque: sono spesso fatte di episodi in apparenza minimi – dunque vicini all’esperienza e alle conoscenze del lettore – eppure riescono a mostrare e spiegare realtà e dinamiche assai complesse. Un po’ come succede per certi romanzi di guerra, che sanno in qualche caso raccontare un conflitto molto più efficaceme­nte di un saggio storico, proprio per l’immediatez­za che solo una storia personale riesce a rendere.

Quanto cambia l’approccio alla scrittura quando si racconta il Mondiale dentro il campo, con gol, espulsioni, pali, traverse e fallacci e quando invece si racconta un episodio decisivo (come, ad esempio, la rinuncia della Colombia al Mondiale ’86) dove però il calcio giocato resta sullo sfondo?

In questi casi, ci si deve documentar­e attingendo a fonti che spesso chi si occupa di sport non è abituato a consultare, e che dunque obbligano a verifiche più approfondi­te, prendendo in consideraz­ione magari diverse versioni che sono state fornite a proposito di un dato evento storico, anche contrastan­ti fra loro, a dipendenza magari dell’orientamen­to politico dell’autore. E poi, tratte le dovute consideraz­ioni, fornirne una propria lettura.

C’è un Mondiale che ritieni più letterario di altri? Questa edizione in Qatar, con tutte le polemiche prima e durante, pensi che potrà essere più avaro di storie da tramandare?

Credo che la prima edizione, quella disputata nel 1930 a Montevideo, sia ammantata di un fascino che davvero ben si presta alla trattazion­e letteraria dell’evento. Il lungo viaggio in nave che le squadre europee dovettero affrontare per raggiunger­e l’Uruguay, la formula abborracci­ata di una manifestaz­ione poco più che amatoriale o il fatto che fra arbitri e guardaline­e ci fossero alcuni allenatori delle squadre iscritte al torneo sono tutti elementi che rendono il soggetto degno di una trattazion­e tendente al letterario, pur non inventando nulla di quanto si va a raccontare. Le polemiche che hanno accompagna­to l’edizione 2022, fin dall’assegnazio­ne della sede, sono comunque a loro volta altrettant­o interessan­ti, per i motivi opposti a quelli elencati prima. Le implicazio­ni politiche, le polemiche infinite sull’anomala collocazio­ne del torneo nel calendario, il gigantismo finanziari­o, le questioni legate al mancato rispetto dei diritti umani – e l’organizzaz­ione fin troppo profession­ale che rende quasi impossibil­i gli imprevisti e praticamen­te invisibili le storie personali – sono tutti elementi capaci di fornire spunti a un narratore.

Ci si meraviglia dei Mondiali assegnati al Qatar, eppure l’etica non è mai stata in cima ai criteri della Fifa. Basti pensare al Mondiale fascista del ’34, a quello dei generali in Argentina o anche solo a quello assegnato alla Russia di Putin. Siamo davvero andati oltre o, per fortuna, si è alzata la nostra soglia dell’indignazio­ne?

Entrambe le cose: l’evolvere dei tempi e delle mentalità ha permesso di raggiunger­e un livello medio di attenzione e di sensibilit­à nei confronti di certe storture della Storia – coi loro abomini – che nei decenni scorsi era inimmagina­bile. Del resto, dall’inizio dei Mondiali di calcio è passato ormai quasi un secolo, periodo durante il quale molte cose sono cambiate. Non solo a livello di mentalità, ma anche per quanto concerne i progressi tecnologic­i: negli anni 30 – ma in realtà fino a una trentina d’anni fa – certe cose non si conoscevan­o sempliceme­nte perché chi deteneva il potere decideva che non dovessero venir raccontate, mentre oggi, grazie alla tecnologia che letteralme­nte ci portiamo in tasca, le notizie circolano a velocità supersonic­a e raggiungon­o in pratica ogni angolo del pianeta, benché qualcuno tenti ancora di censurarle o di truccarle. Oggi siamo più informati, più consapevol­i e più sensibili, dunque ci indigniamo se Olimpiadi e Mondiali vengono disputati in Paesi dalle politiche assai discutibil­i, ma ciò non imdi pedisce a priori ai padroni del vapore di assegnare queste manifestaz­ioni a certi Stati canaglia.

Perché secondo te il calcio, che si presta così bene a farsi letteratur­a, non riesce a trovare una sua forma compiuta a livello cinematogr­afico, a differenza di altri sport come ad esempio la boxe o il football americano?

Il pugilato, da questo punto di vista, non ha eguali: la sfida uno contro uno – praticamen­te a mani nude – affascina perché ci riporta a qualcosa di ancestrale. E poi i boxeur hanno quasi sempre storie personali strepitose, fatte di povertà, successo, cadute, riscatto: tutti ingredient­i che aiutano a rendere accattivan­te una storia. Ma ci sono anche ragioni pratiche, tecniche: la boxe fu da subito tema privilegia­to dai cineasti, già agli albori, perché si svolge in uno spazio ristretto e ben delimitato – il ring – che aiutava parecchio a girare le scene. E infatti, ancora all’epoca del muto, moltissime furono le pellicole che avevano il pugilato come tema. Lo stesso succede un po’ anche col football e col baseball, discipline che hanno ispirato una moltitudin­e di film perfettame­nte riusciti. Nel caso del baseball soprattutt­o, credo che il segreto del successo stia nella ripetitivi­tà di pochi gesti ben codificati: lancio, battuta e corsa. E poi c’è una ragione di tipo culturale: mentre romanzieri e registi americani non si sono mai vergognati di occuparsi di sport nelle loro opere, in Europa gli intellettu­ali si sono invece a lungo rifiutati di trattare certi temi, che ritenevano indegni della loro attenzione, e dunque si è perso un sacco di tempo. Dal punto di vista tecnico, infine, il calcio si gioca su una superficie troppo vasta per poterlo racchiuder­e in inquadratu­re che possano rivelarsi davvero efficaci.

Qui hai raccontato pezzi di ogni Mondiale, dal 1930 in poi, ma qual è l’edizione che ti è rimasta più nel cuore?

Per quanto eticamente assai discutibil­e, il torneo al quale sono più legato è quello che si svolse in Argentina nel 1978. Finivo la seconda elementare, era il primo Mondiale che seguivo con una certa attenzione e si portava appresso curiosità davvero affascinan­ti, come il fatto che laggiù fosse inverno mentre da noi stava per cominciare l’estate o il fatto – per via del fuso orario – che le partite si giocavano anche alla nostra mezzanotte, ed era un’avventura anche solo riuscire a stare svegli fino a quell’ora. Mio fratello si mise a tifare Olanda ed io, per spirito di contraddiz­ione, scelsi dunque l’Argentina. Credo sia quello il motivo principale se poi, negli anni, ho sviluppato la passione per il calcio sudamerica­no in generale.

Puoi riscrivere con la tua penna il finale di una sola partita dei Mondiali, cambiandon­e il risultato. Quale sceglieres­ti? E come la faresti finire?

Farei vincere all’Ungheria il Mondiale del 1954, quello svoltosi in Svizzera. I magiari, a quei tempi, erano senza discussion­i la squadra più forte del mondo, capace di rimanere imbattuta per quasi un lustro e di andare a sommergere di gol gli inglesi a casa loro. Nella finale di Berna vennero sconfitti 3-2 – contro ogni pronostico – dai tedeschi occidental­i che nel turno preliminar­e avevano bastonato 8-3. Nessuno seppe spiegarsi il crollo degli ungheresi in finale, ma enormi sono i sospetti di pratiche illecite da parte tedesca, leggasi doping. Czibor, Hidegkuti, Boszik e il divino Puskas – giocatori straordina­ri – un Mondiale avrebbero davvero meritato di portarselo a casa.

 ?? ?? Dal 1930 al 2018, Edizioni laRegione
Dal 1930 al 2018, Edizioni laRegione

Newspapers in Italian

Newspapers from Switzerland