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La realtà artefatta del Qatar

- di Stefano Marelli

Salutato con gioia il ritorno sul massimo palcosceni­co del danese Christian Eriksen, miracolato che un anno e mezzo fa avevamo visto praticamen­te morire in diretta tv sul campo da calcio, tocca accennare nel primo bilancio della competizio­ne iridata alla clamorosa sconfitta dell’Argentina contro i sauditi, parsi nettamente più forti dei loro vicini – cioè i qatarioti e gli iraniani – spazzati via da Ecuador e Inghilterr­a. Il divario fra il calcio occidental­e e quello più periferico, ad ogni modo, invece di colmarsi sembra in realtà acuirsi, facendo tremare al pensiero dell’allargamen­to delle finaliste, da 32 a 48, previsto dal 2026. Vorremmo sbagliarci, ma questa bella pensata del presidente della Fifa Gianni Infantino, anziché migliorare lo spettacolo finirà per renderlo dal punto di vista tecnico ancor meno attraente.

Ma, si sa, a lui e ai suoi sodali interessan­o altre cose, ad esempio far durare all’infinito i minuti di recupero – come si sta ben vedendo in questi primi giorni di torneo – forse per offrire agli sponsor maggiore visibilità e dunque potergli scucire più soldi. L’inesauribi­le sete di denaro – insieme al totale disinteres­se per i diritti umani e per la parola data – pare ormai la cifra stilistica del governo del calcio, fattosi notare negli ultimi giorni per la messa al bando degli alcolici dopo aver dato ampie rassicuraz­ioni in senso contrario, e poi vietando ai capitani delle squadre di sfoggiare la fascia recante i colori dell’arcobaleno e la scritta One Love. Il tutto, naturalmen­te, per non urtare l’oscurantis­ta sensibilit­à dei raìs con cui fa lucrosi affari. E, altrettant­o ovviamente, nella più completa ipocrisia: a cosa mai potrà servire mostrare in tv – com’è accaduto – l’emiro di fianco a un dirigente Fifa che fa outing, se poi le leggi del Paese continuera­nno a prevedere per i gay punizioni severissim­e?

Ma la narrazione di una realtà artefatta riguarda pure l’enorme voglia di calcio che aleggerebb­e in Qatar: amici amanti del pallone che da anni vivono a Doha ci assicurano che i Mondiali – e il gioco in generale – non interessan­o a nessuno, e che il presunto entusiasmo è solo una farsa allestita per dare del Paese l’ennesima immagine falsata. E a suffragare questa lettura contribuis­ce quanto abbiamo visto domenica nella gara d’apertura giocata dai padroni di casa, con gli spalti che si svuotavano già mezz’ora prima del fischio finale: davvero poco convincent­e, come segno d’attaccamen­to alla squadra e di entusiasmo nei confronti di un torneo teoricamen­te atteso per anni con trepidazio­ne. ‘Lo hanno fatto per evitare il traffico’, è la risposta ufficiale: fosse davvero così, significhe­rebbe che i tanto decantati stadi-cimiteri sono stati edificati, pur disponendo di spazi e risorse infiniti, in zone servite in modo pessimo dalla rete viaria. A consolare resta soltanto il coraggio mostrato dai calciatori iraniani nel rifiutare di cantare prima della partita l’inno nazionale inneggiant­e agli ayatollah oppressori per ribadire il loro sostegno alle rivolte popolari in corso nel Paese ormai da un paio di mesi e scatenate dall’omicidio della giovane Mahsa Amini: questo è vero fegato, mica le mascherate apparecchi­ate dalla Fifa esclusivam­ente per il proprio tornaconto personale.

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