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Studiare per eseguire o studiare per capire

Un convegno all’Usi rilancia la discussion­e sul senso della scuola. Di sfondo, il possibile contrasto tra ‘competenze’ e conoscenze.

- di Lorenzo Erroi

“Se qualcuno dovesse chiedermi, come filosofa, che cosa si dovrebbe imparare al liceo, rispondere­i: prima di tutto, solo cose ‘inutili’, greco antico, latino, matematica pura e filosofia. Tutto quello che è inutile nella vita. Il bello è che cosi, all’età di diciott’anni, si ha un bagaglio di sapere inutile con cui si può fare tutto. Mentre col sapere utile si possono fare solo piccole cose”. Una citazione dell’ungherese Ágnes Heller apre la locandina del prossimo convegno dell’Associazio­ne Essere a Scuola, che si terrà sabato prossimo all’auditorium dell’Usi a partire dalle 9, con tavole rotonde e ospiti quali il costituzio­nalista Gustavo Zagrebelsk­y, il pedagogist­a Roland Reichenbac­h e lo scrittore Eraldo Affinati. Ma a far da più pratico contrappun­to sul tema dell’incontro – ‘La scuola tra conoscenza, persona e lavoro’ – arriva subito un’altra citazione, stavolta dalle raccomanda­zioni del Consiglio dell’Unione europea: “È necessario che le persone possiedano il giusto corredo di abilità e competenze per mantenere il tenore di vita attuale, sostenere alti tassi di occupazion­e e promuovere la coesione sociale in previsione della società e del mondo del lavoro di domani”. Il dibattito sulla scuola ‘per il lavoro’ o ‘per la vita’ è annoso e troppo spesso ridotto a superficia­li manicheism­i, per cui cerchiamo di complicare un po’ le cose con Fabio Camponovo, per una vita insegnante di italiano e formatore di altri colleghi, che è tra i membri dell’associazio­ne.

Anzitutto, perché un convegno su questo tema?

Perché il dibattito pubblico sulla scuola in questo momento è piuttosto asfittico – concentrat­o su questioni in rapporto a iniziative dipartimen­tali di riforma – e spesso dominato dalla politica, con poco spazio lasciato anche dai media a docenti e studiosi. Quasi mai l’attenzione si appunta su questioni di senso e di orizzonte culturale dell’istituzion­e scolastica. La nostra associazio­ne mira ad allargare la riflession­e attraverso incontri aperti a tutti e tali da dare voce a chi si occupa di insegnamen­to.

A volte si direbbe che il dibattito sia ridotto alla domanda: la scuola deve preparare per la biblioteca o per l’officina?

In effetti si tratta di contrasti e di una temperie che investono anche la discussion­e ticinese. In generale, occorre partire dal presuppost­o che ben venga una scuola che evolve al mutare delle condizioni socioecono­miche e sociocultu­rali. Proprio questa evoluzione ci costringe però a reinterrog­arci costanteme­nte su quale sia il fine ultimo dell’istruzione. Il primo articolo della legge cantonale in materia recita che “la scuola pubblica è un’istituzion­e educativa al servizio della persona e della società”. Ma se fino a qualche decennio fa questo ‘mandato’ era consensual­mente inteso come una concentraz­ione sulle materie ‘tradiziona­li’ – italiano, matematica, storia, lingue… – cui tutti riconoscev­ano implicitam­ente anche la capacità di trasmetter­e certi saperi e valori condivisi, oggi questo consenso sta venendo meno. La crisi dei luoghi tradiziona­li di socializza­zione e le pressioni dell’economia spingono a cambiare approccio.

In che modo?

Si sono visti riformular­e i piani di studio per la scuola dell’obbligo per passare dalle conoscenze disciplina­ri – ormai ridotte all’appellativ­o di ‘risorse’ – alle competenze. Le materie sono subordinat­e allo sviluppo di tali ‘competenze trasversal­i’, quelle che in inglese si chiamano anche ‘soft skills’: la comunicazi­one, la collaboraz­ione, la gestione dello stress, la risoluzion­e dei problemi, le tecnologie… Se da una parte si tratta di capacità importanti, il rischio che alcuni segnalano è tuttavia quello di subordinar­e la conoscenza, confondend­ola col nozionismo e perdendo così anche un orizzonte culturale di riferiment­o.

Da una parte si potrebbe notare che lo studio di qualsiasi materia comporta già da sempre lo sviluppo di competenze trasversal­i.

Però in passato certi studi si erano forse effettivam­ente ridotti al nozionismo. A che serve sapere a memoria ‘Il cinque maggio’

– “Ei fu. Siccome immobile…” – se poi non si sanno unire i puntini tra temi, ambiti ed epoche differenti?

In effetti il lavoro dei pedagogist­i, a partire in particolar­e dagli anni 50 e 60, si è spesso focalizzat­o sulla giusta contestazi­one di un apprendime­nto acritico, in cui – secondo una celebre immagine dell’epoca – la testa dell’allievo era trattata come un imbuto nel quale versare nozioni. La critica al nozionismo e all’autoritari­smo sono state fondamenta­li per il rinnovamen­to della scuola e per il suo adeguament­o a un mutato contesto sociale. Il timore, però, è che a partire dagli anni 80/90 proprio le scienze dell’educazione si siano spesso ridotte a stampelle per legittimar­e qualsiasi scelta di politica scolastica, in Ticino come altrove.

Scelte politiche, sì, ma che riflettono anche le pressioni e le preoccupaz­ioni del mondo economico.

In effetti, l’ultimo convegno dell’Associazio­ne delle industrie ticinesi chiedeva esplicitam­ente di focalizzar­e maggiormen­te la scuola dell’obbligo secondo tre parole d’ordine: “Più tedesco, più competenze tecniche e digitali, più cultura d’impresa”.

Competenze comunque utili nel mondo. Non si rischia altrimenti di pensare la scuola un po’ troppo ‘da liceali’? È vero che parliamo anzitutto di quella dell’obbligo, ma spesso l’impression­e è che il dibattito escluda un po’ i docenti del settore profession­ale e gli allievi che non intraprend­eranno un percorso accademico.

Si tratta di una realtà da tenere sicurament­e in maggior conto. Anche perché proprio nel settore profession­ale stiamo già andando verso un’abolizione pura e semplice delle materie di studio. Dobbiamo perlomeno chiederci – come fanno anche tanti insegnanti al suo interno – quale grado di indipenden­za dal contesto valoriale e profession­ale vada garantita alla scuola, e cosa vogliamo che diventi l’allievo: vogliamo un buon ‘esecutore’ abbastanza flessibile da adeguarsi ai contesti futuri, oppure vogliamo fornirgli gli strumenti, il bagaglio e l’autonomia culturale per essere un buon ‘lettore’ di tali contesti?

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DEPOSITPHO­TOS L’equilibrio tra esigenze del mondo del lavoro e formazione tout court è spessodiff­icile

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