Covid in casa anziani, ‘non ci sentiamo responsabili’
Intensa prima giornata del dibattimento a carico dei vertici della struttura di Sementina, i quali respingono le accuse come fatto durante tutta l’inchiesta
Fra marzo e aprile 2020, in piena prima ondata pandemica, su un totale di 80 ospiti 39 hanno contratto il virus e 22 sono deceduti. Per stabilire se e in che misura la gestione sanitaria e amministrativa sia responsabile per un simile impatto del coronavirus all’interno della struttura, si è aperto ieri a Bellinzona il processo a carico dei vertici della casa anziani di Sementina di proprietà della Città di Bellinzona. Per motivi di spazio la Pretura penale (giudice Orsetta Bernasconi Matti) beneficia dell’aula messa a disposizione dal Tribunale penale federale. Al banco degli imputati il direttore del Settore anziani comunale Silvano Morisoli, patrocinato dall’avvocato Luigi Mattei, la direttrice sanitaria (difesa dall’avvocato Mario Postizzi) e l’allora capocure della casa di riposo (rappresentata dall’avvocato Edy Salmina). Per l’accusa non ci sono dubbi: sia singolarmente sia in parziale correità si sono “intenzionalmente e ripetutamente opposti” ad applicare “provvedimenti, direttive, istruzioni e raccomandazioni prese ed emanate dalle autorità cantonali e federali per impedire la propagazione” del Covid nelle case anziani. Respingendo le accuse e dichiarandosi innocenti – cosa che hanno fatto durante tutta l’inchiesta e ribadito in apertura di processo – devono rispondere del reato di contravvenzione alla Legge federale sulla lotta contro le malattie trasmissibili dell’essere umano. Caduta invece al termine dell’inchiesta penale l’altra ipotesi accusatoria iniziale, quella di omicidio colposo. L’Accusa è sostenuta dalla procuratrice pubblica Pamela Pedretti che ha firmato i Decreti lo scorso 2 maggio, affiancata in aula dal procuratore generale Andrea Pagani. Impugnandoli, gli imputati accettano di sottoporsi a un processo il cui svolgimento non è a porte chiuse. Rappresenta alcuni familiari, costituitisi accusatori privati avendo presentato denuncia penale, l’avvocata Sandra Xavier.
‘Spesso non venivo nemmeno interpellata’
La giudice ha interrogato a lungo i tre imputati facendo passare tutti i capi d’accusa. In mattinata, entrando subito nel merito dei pazienti deceduti, la direttrice sanitaria ha detto di essere intervenuta sui singoli ospiti con sintomi «spesso in seconda battuta, perché la presa a carico veniva fatta dapprima dai medici di famiglia, e talvolta mai. Per questo motivo contesto le accuse, non essendo basate sui fatti e sull’attività da me svolta». In altri casi, ha aggiunto, era invece lei a gestire in prima persona le singole situazioni, partendo dall’esecuzione dei tamponi: «Tuttavia, quando questo risultava positivo ed erano i medici di famiglia a gestire le prime fasi, capitava che venissi informata soltanto il giorno dopo. E lì partiva la nostra presa a carico con cure specifiche e gestione dei familiari». La pp Pedretti ha però subito osservato che il problema non è tanto la presa a carico in sé ma semmai il fatto che, nonostante i sintomi e il conseguente rischio di diffusione del Covid, taluni ospiti hanno potuto continuare a muoversi all’interno della struttura, violando così le disposizioni superiori. «Questo – ha replicato la direttrice sanitaria citando un caso specifico – è successo ad esempio quando un’ausiliaria di cura ha informato l’infermiera responsabile della presenza dei sintomi solo dopo la colazione consumata fuori dalla camera insieme ad altri ospiti; eseguito il tampone, risultato positivo, è partito l’isolamento».
Paziente positivo accompagnato a incontrare il figlio: ‘È stato un errore’
In un altro caso è successo che un paziente con sintomi da quattro giorni, il 3 aprile sia stato portato al pianterreno a incontrare il figlio in visita: «È chiaramente stato un errore», ha riconosciuto la direttrice sanitaria ricostruendo l’accaduto: «Un’ausiliaria di cura, senza avvisare la propria infermiera diplomata di riferimento, ha accompagnato l’ospite di sotto segnalandolo a un’altra infermiera, la quale a sua volta non si è confrontata con quella responsabile». Solo più tardi, in giornata, l’ospite 83enne è stato sottoposto a tampone; è deceduto cinque giorni dopo. «Non ero a conoscenza di questa circostanza e fare scendere il paziente è stato un errore – ha dal canto suo pure riconosciuto la capocure –. Me lo spiego come un senso di umanità fatto dall’assistente di cura, vista l’insistenza dei familiari per poterlo vedere».
‘Pochi tamponi e riservati ai casi più gravi’
Con gli stessi sintomi l’ospite deceduto aveva anche continuato a consumare i pasti nella saletta comune al quinto piano fino al 3 aprile. La direttrice sanitaria ha specificato che in quel periodo – a differenza di oggi – il fatto di avere una temperatura corporea di 37,4 gradi, come in quel caso e in molti altri casi simili, non rappresentava uno stato tale da richiedere un approccio anti-Covid; solo dai 38 gradi in su. Sul fatto che di fronte a più ospiti con sintomi non sia stato avvisato tempestivamente il medico di famiglia, gli imputati hanno sostenuto che la sintomatologia poteva correlarsi a malattie o disturbi pregressi. «Ma durante le riunioni del mattino in cui si discuteva dei sintomi dei pazienti, non bisognava essere un po’più puntuali? Non bisognava essere più attenti ai sintomi, pensare magari che un semplice mal di gola poteva essere Covid e che quindi si correva il rischio di un importante contagio?», ha chiesto la giudice. Insomma: «Nel dubbio non era meglio agire subito con un tampone?». «Fino al 20 marzo il materiale per i tamponi non era di facile reperibilità. Lo ricevevamo in maniera centellinata», ha risposto la direttrice sanitaria. Anche Morisoli ha rimarcato che il 20 marzo il medico cantonale diceva di riservare i tamponi ai casi più gravi.
Nel pomeriggio l’attenzione si è poi focalizzata sul fatto che dal 18 al 24 marzo 2020, almeno una ventina di ospiti, si legge nei Decreti d’accusa, “hanno continuato a consumare i pasti nella sala comune al pianterreno nonostante dal 18 marzo il virus avesse contagiato i primi collaboratori e ospiti che frequentavano questi spazi”. Inoltre “dal 18 marzo al 17 aprile 5-15 ospiti hanno continuato a mangiare nelle salette comuni” presenti nei cinque piani “nonostante non fosse possibile garantire un’adeguata distanza di sicurezza fra tutti i presenti che restavano in uno spazio limitato per oltre 15 minuti”. «Non abbiamo mai pensato di prendere le misure con il metro – ha risposto a precisa domanda Morisoli –. Abbiamo comunque raccomandato di mantenere un certo distanziamento, con la precisa indicazione che la disposizione degli ospiti ai tavoli fosse a scacchiera». Il direttore ha poi detto che inizialmente né la Confederazione né il Cantone chiarivano l’esatta distanza da mantenere. Un punto contestato dal procuratore generale: secondo Pagani i vertici sapevano bene quali erano i parametri, e questo a suo dire è dimostrato da una email del 26 febbraio inviata dalla direttrice sanitaria allo stesso Morisoli in cui si specificava: contatti tra i pazienti solo mantenendo almeno due metri di distanza e per un massimo di 15 minuti. Secondo la capostruttura il distanziamento durante i pranzi era comunque garantito.
Tombole, canto, atelier, passeggiate...
Spazio poi alle attività socializzanti, effettuate sui singoli piani, dal 18 marzo al 6 aprile, nonostante il divieto imposto dal medico cantonale il 9 marzo. La pubblica accusa indica che sono stati organizzati, con decisione condivisa dei tre imputati, incontri di lettura, tombole, momenti di canto, atelier creativi e passeggiate nel parco. «Abbiamo proposto attività limitate ai piani nell’intento di far vivere la giornata ai nostri ospiti». Fino a prima della pandemia, ha continuato Morisoli, «la nostra casa anziani era piena di vita, e il fatto di rinchiudere l’ospite e deprivarlo dell’affetto dei familiari è stato vissuto molto male dagli stessi residenti, che sono esseri umani». «Preciso – ha aggiunto la direttrice sanitaria – che erano attività di tipo terapeutico per far sentire alle persone un certo calore umano». La giudice ha quindi chiesto se fossero consapevoli che in questo modo si stava trasgredendo. «Per noi non si trattava di attività socializzati, ma di attività ordinarie sociosanitarie», ha ribadito Morisoli, sottolineando che solo con la direttiva del 29 maggio il medico cantonale ha fatto un preciso distinguo tra i diversi tipi di attività. «E il canto e la tombola?», ha incalzato Pagani. «Non ho mai visto nessuno cantare, altrimenti sarei intervenuta – ha risposto la capocure –. Non tutti i giorni ero presente per verificare le attività, ma quando c’ero ho constatato che la distanza sociale era rispettata, avendo aggiunto tavoli e sedie». «Ho valutato come cosa buona il proseguimento delle attività per i pazienti confrontati con quella difficile situazione – ha affermato la direttrice sanitaria –. Non ho però avuto voce in capitolo sul tipo di attività da proporre e sul modo di organizzarle». Compito affidato alla capocure.
‘Niente tracciamento’
Ai tre viene anche imputato di non aver allestito rigorosamente fra il 22 marzo e il 17 aprile la lista dei contatti avuti con pazienti positivi, contravvenendo ancora una volta alle disposizioni cantonali. Per l’accusa il mancato tracciamento non ha reso possibile evitare contagi. Gli imputati hanno spiegato di non aver ritenuto necessario procedere in questo senso, perché non tutte le condizioni a livello di sintomi significativi erano adempiute. È stato poi avviato, ha dichiarato Morisoli, una sorta di monitoraggio interno, ma non ufficiale. E quando la situazione è precipitata il lavoro di tracciamento è diventato insostenibile per un personale oberato di lavoro e già al di sotto delle risorse a livello di effettivi.
In lacrime: ‘Situazione straziante’
Morisoli ha poi riconosciuto che un’infermiera è stata impiegata per un turno notturno nonostante fosse positiva. «Non avevamo personale sufficiente. Ci siamo posti il problema ma lei ci ha detto di sentirsela di venire a lavorare nel reparto Covid dove era già stata di turno nei giorni precedenti». «Sono scelte che ti fanno stare male», ha aggiunto la direttrice sanitaria, che a fine giornata non è riuscita a trattenere le lacrime: «Maledette tre settimane. A fine marzo ci siamo accorti di quello che stava succedendo, che i nostri ospiti stavano morendo. Una situazione straziante. Quello che abbiamo visto e vissuto è stato indicibile». L’accusa contesta ai vertici anche l’opportunità di autorizzare, il 16 e il 17 aprile 2020, l’ingresso di tre operai comunali per eseguire lavori di tinteggio al terzo piano. Morisoli ha sostenuto in aula che il piano era vuoto in quel periodo, e che quindi dopo tanti anni era la buona opportunità per ripitturare le pareti. Anche in questo caso, ritenuto che non si trattava di manutenzione straordinaria impellente, l’accusa è dell’idea che i tre imputati abbiano violato le direttive sul divieto d’accesso alla struttura.
I rapporti (contestati) del medico cantonale
I tre Decreti d’accusa impugnati propongono il pagamento di multe contravvenzionali rispettivamente di 6mila (direttore generale), 8mila (direttrice sanitaria) e 4mila franchi (capocure), più tasse di giustizia. Decreti che ricalcano in grandi linee le critiche mosse dall’Ufficio del medico cantonale – rispedite al mittente dal terzetto mettendo in dubbio la competenza di tale ufficio in materia di controllo – il cui ispettore aveva ravvisato nella prima ondata la violazione di molte disposizioni; critiche successivamente corroborate in fase d’inchiesta da interrogatori cui sono stati sottoposti anche dipendenti della struttura e familiari di ospiti. Oggi si prosegue con l’audizione chiesta dalle difese di una caporeparto in qualità di persona informata sui fatti. Poi parola alle parti.