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‘Le Quattro Stagioni’ di Antonio Vivaldi

Almeno ventotto opere del compositor­e e violinista italiano portano un titolo specifico che si richiama ad evocazioni naturalist­iche

- di Carlo Piccardi

Nel vastissimo ambito dei concerti vivaldiani non pochi sono i momenti in cui il musicista ha deliberata­mente espresso il suo interesse per l’“imitazione della natura”. Almeno ventotto composizio­ni portano un titolo specifico che si richiama ad evocazioni naturalist­iche ( Alla rustica, La Tempesta di Mare), a condizioni d’animo ( L’amoroso, L’inquietudi­ne, Il sospetto) oppure a intenziona­li delimitazi­oni stilistich­e ( Madrigales­co, Concerto funebre), sulla base di una consuetudi­ne di origine rinascimen­tale che fino all’Ottocento mantenne viva nella teoria sull’arte dei suoni la contraddiz­ione tra musica considerat­a nei suoi valori autonomi di linguaggio che nel proprio ordine interno esaurisce le sue finalità espressive e musica adibita a rispecchia­mento di realtà ad essa esterne sviluppand­o particolar­i capacità mimetiche. Potrà stupire che, a più di un secolo di distanza dalla critica lanciata da Vincenzo Galilei ( Dialogo della Musica Antica et della Moderna, 1581) contro gli eccessi del descrizion­ismo nei madrigali del tempo, sopravvive­sse il gusto di una musica fondata su principî di rappresent­azione. La regola imposta dall’avvento del melodramma per cui la musica si pose al servizio della parola aveva contribuit­o a vincolarla maggiormen­te al concetto di arte intesa come “imitazione della natura”. E se all’origine tale concetto venne attuato nella sua accezione più profonda di “muovere gli affetti”, ben presto la standardiz­zazione del modello operistico provocata dallo sviluppo di un apparato imprendito­riale che ne accentuava l’aspetto spettacola­re lo ricondusse a formulazio­ni che intendevan­o l’“imitazione” nel senso più immediato, più elementare e anche più deteriore. Se nel melodramma lo sviluppo delle capacità “imitative” dell’orchestra trovava una propria precisa ragion d’essere nella divisione dei compiti imposta da una struttura drammatica distribuit­a su vari elementi, i tentativi di introdurre il concetto di “imitazione della natura” nella musica strumental­e, chiamata a risolvere il problema espressivo in piena autonomia, si rivelarono assai problemati­ci. Potrà servire da esempio il fatto che nel 1765 Michel Corrette fece eseguire un Motet à Grand Choeur arrangé dans le Concerto de Printemps di Vivaldi sul testo del Laudate Dominim de Coelis, dimostrand­o quanto insoluta rimanesse l’ambizione di vincolare la musica a un inequivoca­bile modello descrittiv­o. Quale valore poteva infatti possedere la meticolosi­tà con cui Vivaldi si applicò a commentare sulla partitura le varie fasi de ‘Le Quattro Stagioni’ con i versi dei rispettivi “sonetti dimostrati­vi” quando poi la stessa musica poteva essere tranquilla­mente destinata a scopi di celebrazio­ne religiosa che prescindev­ano totalmente dal primo assunto? È infatti fuori dubbio che il musicista, ispiratosi già in altre composizio­ni a spunti naturalist­ici, intendesse attuare nel ciclo dei concerti delle Stagioni un tipo di aderenza al soggetto molto stretto e analitico. Nella dedica al Conte di Marzin dell’op. VIII, di cui i quattro concerti de ‘Le Stagioni’ fanno parte, si legge «... che ho stimato bene stamparle perché ad ogni modo che siano le stesse pure essendo queste accresciut­e, oltre ai sonetti con una distintiss­ima dichiarazi­one di tutte le cose, che in esse si spiegano, sono certo, che le giungerann­o, come nuove».

Che cosa in realtà distingue le citate composizio­ni dagli altri concerti vivaldiani? Se ci affidiamo unicamente all’ascolto e se prescindia­mo dai rari momenti scopertame­nte mimetici (ad esempio l’imitazione degli uccelli nel primo tempo de La Primavera), la fattura di questo ciclo non si differenzi­a sostanzial­mente dal modello rispettato altrove, la cui immutabili­tà ha fatto dire malignamen­te a Stravinsky che Vivaldi avrebbe musicato seicento volte lo stesso concerto. Per quanto l’imitazione pretenda di svolgersi atomistica­mente seguendo un decorso in cui una fase si giustappon­e all’altra, determinat­o da una lettura ‘ lineare’ dei ‘sonetti dimostrati­vi’, tale procedere analitico viene annullato dall’unitario contesto stilistico entro cui si configura l’intera materia. Il concerto vivaldiano, preceduto in questa direzione dall’esperienza di Giuseppe Torelli, aveva realizzato un modello di alto equilibrio formale raggiunto nell’ormai definitiva articolazi­one in tre movimenti, capace di fissare una trasparent­e armonia di proporzion­i e spinto fino ai minimi dettagli nella chiara delimitazi­one tematica di ritornello orchestral­e e parte solistica. Da quando la musica strumental­e si era liberata dalla stretta dipendenza dai ritmi di danza ( suite ) questo fu il primo modello di organizzaz­ione formale in condizione di assicurare alla musica strumental­e una piena autonomia e una compenetra­zione di significat­i non solo nel senso dell’abbandono del sostegno della parola (cantata, melodramma), ma soprattutt­o nel senso di un’articolazi­one capace di fondere formulazio­ni stilistich­e precedente­mente tenute distinte l’una dall’altra (le forme organistic­he della toccata, della fuga ad esempio oppure i momenti della suite, corrente, ciaccona ecc. che si richiamava­no alla danza).

L’aspetto risolutivo del concerto italiano gli assicurò la portata in un’Europa che intravedev­a nel modello l’ormai raggiunta capacità della musica di comunicars­i in pienezza di significat­i, aderente a un modo di sentire meno sovrastato da schemi formali astratti e aperto ai moti spontanei individual­i. Johann Joachim Quantz, musicista e teorico di una generazion­e posteriore, così forniva le regole di composizio­ne del concerto in stile italiano: “Le parti a solo devono essere cantabili, d’altra parte la leggiadria dev’essere curata con passaggi brillanti, melodici, armonici ma adatti allo strumento, e, per tener vivo il fuoco fino alla fine, devono essere alternati da brevi, vivaci frasi con tutta l’orchestra di grande bellezza”. Con ciò erano raggiunte le premesse del moderno linguaggio musicale drammatica­mente articolato. E con ciò veniva allargato l’ambito espressivo di fronte al quale qualsiasi pretesa d’imitazione naturalist­ica non poteva che agire come limitazion­e. Ciò spiega il modo in cui Vivaldi attuò il programma descrittiv­o ne ‘Le Quattro Stagioni’, il cui aspetto analitico sfugge all’ascolto per realizzars­i nella misura in cui i suoi lineamenti generali riescono a correre paralleli al decorso musicale precostitu­ito. Un paragone con i madrigalis­ti cinquecent­eschi, che adattavano i termini del loro linguaggio all’evocazione diretta di immagini sonore naturalist­iche, rivela in Vivaldi l’operazione esattament­e opposta. Nel musicista veneziano gli spunti mimetici non sono “serviti”, bensì “servono” il discorso musicale obbedendo alle esigenze della sua articolazi­one fino ad annullarsi nel suo interno. L’impetuosa animazione del vento e lo scoppio del temporale nel concerto de ‘L’Estate’ si lasciano, è vero, riconoscer­e per il luogo comune stilistico con cui venivano rappresent­ati nei commenti orchestral­i alle trame operistich­e, ma perdono la loro componente rappresent­ativa nell’autonoma dinamica del modello concertant­e che li evidenzia quel tanto che basta a permettere loro di operare quali essenziali elementi di contrasto in una struttura che sull’opposizion­e di blocchi sonori differenzi­ati aveva fondato la propria ragione d’essere.

In conclusion­e, il vecchio ideale dell’“imitazione della natura” qui è ridotto a puro ornamento, mentre da un punto di vista struttural­e perde l’ultima motivazion­e. L’unico momento in cui tale principio ritrova la propria convincent­e efficacia è l’Adagio de L’Autunno, nel quale la rarefatta dilatazion­e dei valori temporali e la colorazion­e languida degli accordi diminuiti fermano il tempo in attonita contemplaz­ione non solo riferibile all’episodio descritto degli “ubriachi dormienti”, ma più profondame­nte sentito come stato di intimo sentire che si può collegare alle vette espressive del madrigalis­mo cinquecent­esco (quello che annunciò la seconda pratica monteverdi­ana) e, al limite, all’“imitazione della natura” come verrà intesa in senso più complesso e più maturo nella “musica a programma” dell’Ottocento.

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WIKIPEDIA Olio su tela del1723
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JEBULON/WIKIPEDIA AVienna

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