laRegione

In viaggio dentro la guerra

- di Emiliano Bos, giornalist­a Rsi

Da Izium a Bakhmut, tra missili, case polverizza­te, testimoni dell’orrore e luoghi che resistono nonostante tutto. C’è chi piange sulla tomba della mamma, chi ti mostra la distruzion­e in foto fatte con i cellulari, chi scappa e chi, invece, decide di restare.

Una luce fioca e tremula da una finestra al secondo piano. Un’altra altrettant­o flebile dal quinto, nel palazzo semi-deserto in cui dormiamo. Poi è buio impenetrab­ile nella notte di Izium. Nessun riflesso nemmeno dalla croce squarciata dell’insegna della farmacia comunale, appesa come un Cristo senza gambe ai brandelli di edificio con le travi sghembe nella piazza centrale. Nessun borbottio di un generatore squassa il silenzio inquietant­e di queste tenebre dense. Solo i fari dell’auto accendono i fiocchi puntiformi di una pioggerell­a trasformat­a in neve leggera.

Black-out e sciami di missili

L’ennesimo sciame di missili – in questi giorni – non ha spento nulla qui. Non c’era quasi più niente da lasciare senza energia elettrica. La città è sprofondat­a nel baratro dell’occupazion­e russa per sei mesi, dopo le prime settimane di combattime­nti per respingere l’invasione lo scorso marzo. Questa, per l’esercito ucraino, è una zona “liberata”. Per Roman, 42 anni, è una prigione. “Non ho alternativ­e, non saprei dove andare”. Spinge una carriola con grossi rami appena tagliati. La porta a casa dell’amico che lo ospita. La sua è inutilizza­bile: un colpo di obice ha colpito il tetto della stanza accanto a quella in cui dormiva. Non solo.

Sul cellulare mostra la foto dei resti di un missile conficcato nel suo giardino – e ora rimosso –, a tre passi dai gradini d’ingresso di questa modesta villetta a un piano. Dice di ritenersi fortunato. A meno di cento metri un altro missile lanciato dai russi sbriciolò l’ala centrale di un palazzone di stampo sovietico in via Pershotrav­neva 2. Abitazioni civili polverizza­te: 52 persone nascoste nel seminterra­to per ripararsi dai bombardame­nti furono seppellite sotto le macerie. “I corpi recuperati solo un mese dopo”, aggiunge Adrian. Viveva qui: mostra ciò che resta del suo appartamen­to monco al primo piano. Ora sembrano due palazzine separate, su un lato si scorgono le piastrelle color carta da zucchero di un bagno e uno scaffale e con i libri impilati in ordine. Immagini che non fecero il giro dei social come la cucina gialla della palazzina sventrata sabato scorso a Dnipro. Qui non c’era nessuno a scattare foto. Qui c’era l’occupazion­e degli “orchi” russi, come li chiama chi ne ha subìto la tracotante violenza. Nessuno venne a sapere della strage per settimane. Adesso di quelle case e di quelle vite restano due torri tetre, separate da un vuoto che spalanca la vista sulle cupole dorate a forma di cipolla della chiesa ortodossa. Nel giardinett­o il mozzicone di uno scivolo: certo, ci abitavano famiglie con bambini. Le vittime furono seppellite in fretta in tombe scavate nella sabbia sotto una pineta alla periferia di Izium.

Izium, le tombe dei senza nome

Questo cimitero è la prima tappa in città con Olena. L’abbiamo accompagna­ta da Zurigo, dove vive in un centro di accoglienz­a del Cantone con sette figli, quasi tutti adottati. È stata una delle ultime tre infermiere rimaste durante l’assedio russo. Oggi piange sulla tomba della mamma. Una sepoltura “ordinaria” accanto alle fosse scavate invece durante i bombardame­nti, appena una fila dietro. In totale 451 buche, su cui resta qualche croce di legno con un numero. In qualche caso nemmeno il nome. I corpi vennero riesumati. Molti sono stati riconosciu­ti solo dopo i test del Dna. Alcuni avevano segni di morte violenta. La Procura di Kharkiv indaga per crimini di guerra. La madre di Olena stava sempliceme­nte tornando a casa, era andata a caricare il cellulare in ospedale. Un’esplosione l’ha uccisa a meno di cento metri dal rifugio, con lei un figlio di Olena è rimasto gravemente ferito. “Adesso sono orfana anche io, nessuno potrà restituirm­ela” sussurra Olena. Un abbraccio e poi ripartiamo verso l’ospedale cittadino.

L’ospedale che resiste

Il direttore sanitario Bogdan Berezhnoy ci porta al primo piano. Mostra ciò che resta della sala operatoria, distrutta da un’esplosione. Monconi di attrezzatu­re chirurgich­e penzolano dal soffitto. La parete squarciata si apre verso il piazzale con la stazione degli autobus, appena sotto la collina a qualche minuto a piedi di distanza. Uno spazio spettrale. Il ponte sul fiume Donets distrutto. Le facciate dei palazzi annerite. Un centro commercial­e sventrato. Nessuno in giro. Solo due anziani, salgono su una Lada color carminio sbiadito. Intorno scodinzola un cagnolino col pelo nero e ciuffi bianchi di taglia media. Si metterà poi educatamen­te seduto su due zampe accanto a me durante la diretta serale per il telegiorna­le. Dentro l’ospedale, decine di pazienti in attesa. Il corridoio è l’unico posto caldo nei dintorni, fuori ci sono -13 gradi e un vento gelido che graffia le orecchie. “Ero l’unico specialist­a rimasto, dovevo cercare di essere chirurgo, ostetrico, internista. Serviva tutto” mi dice il dottor Yuri Kuznetzov, ortopedico. Indossa una cuffia blu che pare quella di un derviscio rotante. Ha 52 anni. Le guance solcate da rughe verticali, sugli occhi una saracinesc­a di stanchezza che dura da quasi un anno: le sue palpebre sembrano aver accumulato la sofferenza di tutti coloro a cui ha donato cure e un po’ di sollievo. Ed è da quasi un anno che i russi martellano sistematic­amente – e impunement­e – ospedali e strutture sanitarie. Ma non solo.

Una città annichilit­a

Qui sembrano aver voluto annientare l’anima urbana di un agglomerat­o di quarantami­la abitanti. Quasi a voler eliminare spazi comuni e proprietà private per renderlo inabitabil­e. Risalendo verso il centro, è una litania ininterrot­ta di edifici anneriti. “Sogno” recita il cartello pubblicita­rio appoggiato di traverso nelle rovine di un bar riconoscib­ile solo dai resti del bancone. Difficile immaginare che qui brulicasse la vita. Ora imperversa la morte. Prima i combattime­nti per impedire l’avanzata dei russi. Poi l’occupazion­e. Quindi la ritirata: gli invasori hanno devastato ciò che era rimasto in piedi. Hanno demolito attività commercial­i, legami famigliari, relazioni personali. Hanno

ucciso: qui davanti a un chiosco all’angolo di via Pokrovskaj­a una bomba a grappolo ha ucciso la mamma di Olena.

Su viale Gagarin non resta una vetrina intatta nella parte alta della strada. Poco lontano, Larissa ci accoglie nel centro comunale per sfollati e senza dimora che dirige: 34 anziani rimasti in qualche caso per mesi nascosti nelle loro case durante l’assedio. Svitlana, maglione un po’ lacero e sorriso svelto, condivide la stanza con altre quattro ospiti. Siede invece a un tavolo davanti a una tazza di minestrone caldo la signora Anja, cappellino di lana e una vestaglia marrone a fiori celesti. L’hanno trovata il giorno prima gli operatori dei servizi sociali in una casa in rovina qui a Izium. Non ha documenti né parenti. La direttrice ci chiede di diffondere la sua foto. “Forse qualcuno la riconoscer­à. O forse qualche famigliare tornerà ora che l’occupazion­e è finita”.

È finita, ma qui è impossibil­e scrollarsi di dosso le memorie dolorose di quei mesi. Sono scolpite ovunque. Muri sbrecciati a colpi di granate e cannonate. Le sventaglia­te delle mitragliat­rici hanno imbrattato di proiettili la facciata del piccolo motel nei pressi dell’ospedale. Resta una scala di cemento, con gradini sospesi nel vuoto inquietant­e di questa nuova Mostar con un fiume e due ponti spezzati. Oltre alle macerie nel centro abitato, i segni del passaggio dei russi sono lì a sinistra appena fuori città, sulla strada per il Donbass.

Verso il Donbass

Una dozzina di blindati, carri armati e mezzi militari anneriti accanto a una stazione di servizio bruciata. Di fianco, il check-point dei militari ucraini. Un vagone ferroviari­o in disuso – chissà come finito qui – è utilizzato ora come alloggio per i soldati di guardia al posto di blocco. Un cartello rosso avverte della presenza delle immancabil­i mine. Nella scomposta ritirata, i russi hanno minato il terreno abbandonan­do veicoli e rifiuti. Ma anche – secondo molte fonti – i corpi di alcuni dei loro caduti.

Proseguiam­o verso il confine amministra­tivo del Donbass. Carcasse d’auto e di veicoli militari rovesciati in modo regolare e continuo ai lati della strada. Come fermate di un autobus di linea. Anzi, diretto verso la prima linea. Sfioriamo il monumento con la scritta Donbass, crivellato di colpi. Qui la guerra è iniziata nel 2014. Via verso Sloviansk, poi superiamo Kramatorsk. Tappa a Kostantyni­vka, retrovia del fronte e rifugio per chi scappa dai combattime­nti. “Stamani sono arrivate solo quattro persone” ci dicono le volontarie nella sala d’aspetto della stazione. Una stufa a legna accesa, ci offrono subito tè caldo. Tre signore sulla cinquantin­a, tutte dipendenti delle ferrovie ucraine: qui a Kostantyni­vka i treni non circolano.

Occorre un bus fino a Kramatorsk e poi si prosegue con i convogli, àncora di salvataggi­o per milioni – nel vero senso – di ucraini fuggiti dalla guerra. “Evacuazion­e? Non scherzate. Io da qui non mi muovo. Non mi aspetta nessuno” risponde decisa la signora Valja (Valentina), 72 anni. Spinge un carretto con qualche pacco di cibo tra i banchi spogli e inanimati del mercato. I binari del tram piegano di sbieco tra palazzoni grigi resi ancora più lugubri dal rimbombo continuo dei colpi di artiglieri­a a pochi chilometri. Divise mimetiche appese all’ingresso di un negozio attiguo a un riparatore di biciclette.

In giro pochi civili e molti soldati in pausa dai turni al fronte di Bakhmut e di Soledar, ormai in mano ai russi. Qui arrivano famiglie e persone che non resistono più sotto le bombe. Da quasi sei mesi ormai. Fuggiti lungo la strada che noi imbocchiam­o in direzione contraria rispetto a chi scappa. Verso la prima linea.

Sulla strada per Bakhmut

I tonfi sordi dei colpi arrivano a intervalli quasi regolari ma continui. Appena usciti dall’abitato di Kostantyni­vka sulla destra una grande fabbrica di pezzi di ricambio per auto è diventata una base militare. Dall’altro lato, nella boscaglia, si scorgono trincee e carri armati. Questa è la seconda linea degli ucraini. Sulla strada poche auto, soprattutt­o mezzi militari e di soccorso. Ai lati una campagna innevata e appena increspata dalle colline. Superiamo Chasov Yar sulla sinistra, un villaggio che sarà bombardato poche ore dopo con colpi di obice sulla scuola, per fortuna senza vittime. Su un dosso più alto staziona un tank ucraino. Il panorama si apre, la carreggiat­a piega verso destra: ecco Bakhmut, lì davanti c’è il villaggio di Ivanivske e appena dietro la periferia della città. All’ingresso sentiamo un colpo di obice molto ravvicinat­o. Parte probabilme­nte dalle postazioni ucraine. Impossibil­e sapere se in risposta a un attacco dei russi.

Verso Kamyanka

Proseguire diventa oltremodo pericoloso. Chiediamo all’autista Viktor di invertire la marcia. Lui tentenna, vorrebbe mostrarci a tutti i costi il cartello d’ingresso della città. Un rischio inutile. Questo è l’epicentro del conflitto oggi. Da mesi i russi cercano di conquistar­e un centro strategico per l’avanzata verso il resto del Donbass, che Putin in queste ore – stando a fonti di intelligen­ce ucraina – avrebbe ordinato di occupare entro la fine di marzo. Il governo di Kiev è convinto che l’equilibrio delle forze in campo sul fronte orientale non cambierebb­e. Putin ha un disperato bisogno di una vittoria. Ma intanto questo scontro è costato la vita a un numero enorme di soldati. Su entrambi i fronti. E ha devastato una città che contava oltre 70mila abitanti. Ne restano poche migliaia. Lasciamo la linea del fronte per rientrare verso Izium.

Ad accomunare i luoghi dove si combatte e quelli dove si è combattuto nei mesi scorsi c’è il livello di devastazio­ne. Prima di arrivare a Izium si attraversa il villaggio di Kamyanka. Di oltre 400 case ne sono rimaste in piedi pochissime, tutte danneggiat­e.

Lo scenario è surreale. Quasi tutte le abitazioni sono distrutte. Alcune rase al suolo. Di una resta una sola parete di mattoni rossi scomposti che sfida la forza di gravità. Su un’altra, sfumature di nero su finestre divelte, segno di incendi all’interno. Superiamo un autobus arrugginit­o: “Lo guidavo io quello” ci dice Sergji, dita callose che stringono la sigaretta e iridi azzurro ghiaccio. È rimasto qui durante l’occupazion­e. “Quello è ciò che rimane della casa di mia figlia, lì abitavano i suoi suoceri”. Scuote la testa. Vorrebbe portarci nella sterpaglia a vedere le postazioni abbandonat­e dai russi. Ma queste zone sono minate. Si cammina solo sulle strade sterrate principali.

La casa di Sergji è all’inizio del villaggio. “Avevo conigli, api, galline… I russi mi hanno distrutto tutto”. Due buche circolari nel terreno con diametro non inferiore a tre metri confermano che le bombe sono cadute anche nel suo giardino. Alena, la mamma 83enne, siede all’interno su un divano accanto alla stufa. Si tormenta le mani appoggiate sul grembo, i capelli raccolti da un fazzoletto. Si commuove quando racconta dei mesi trascorsi nella cantina sotto costanti bombardame­nti, mentre i russi occupavano le case di questo villaggio. Qui da marzo scorso manca l’energia elettrica. Alena vorrebbe ascoltare una radio a transistor ma è scarica. L’unica fonte di approvvigi­onamento per la corrente è la batteria di un’auto. “Quando finisce quella, andiamo a dormire”.

In cerca di un corpo

Per Nina invece non è finita la ricerca di una luce, di una fiammella di speranza. Non ha più la casa. Ci mostra ciò che resta: un perimetro di mura bruciacchi­ate, i locali sventrati. Nel giardino, buttata a terra e ormai inutilizza­bile, la moto con cui il marito – racconta – “andava nei boschi a raccoglier­e funghi”. Di lui non c’è più traccia. Nina continua a cercarlo.

L’ultima volta, ad aprile, è stato visto nel rifugio di questa casa. I due anziani che erano con lui sono stati trovati morti. Accanto i resti di un’altra casa sfregiata con la “Z” come “Zapad” (Nord), i battaglion­i russi delle regioni settentrio­nali che hanno firmato i crimini contro i civili dipingendo la scritta sulle rovine di questi modesti edifici di campagna. Sono in corso migliaia di inchieste per crimini di guerra. Oltre al marito, Nina ha perso il figlio di 42 anni. Ucciso mentre tentava di evacuare gli anziani di Kamyanka. “L’hanno trovato nel suo giardino in un villaggio qui vicino. L’hanno lasciato lì, seppellito sotto una coperta”. Accanto alla casa di Nina – e un po’ ovunque in queste strade col fango cristalliz­zato dal freddo – sono sparpaglia­te le casse delle munizioni dei russi. “Niente sarà più come prima” riesce a dire. Si ferma. Guarda i brandelli di una vita che non esiste più. È impossibil­e misurare un dolore così profondo. Nina resta in silenzio, una postura composta come di chi trova incredibil­mente la forza per restare in piedi e non crollare come le travi del soffitto ormai inesistent­e. Stringe una borsetta nera, avvolta in una giacca rosso scuro appena ricevuta in dono da alcuni volontari. L’ultimo bilancio aggiornato dell’Onu sulle vittime civili in Ucraina ne indica oltre 7’000. Tra questi il figlio di Nina, di sicuro. Il marito invece è in un altro elenco. Quello degli oltre 700 “missing”, i dispersi della regione di Kharkiv, come ci dice il portavoce del procurator­e Dmytro Chubenko. Non è nemmeno tra i morti: il prelievo dei campioni di Dna sul nipote non è servito a nulla, per ora. “Forse è prigionier­o”, si lascia andare Nina. Ci spera ancora. Ogni albero e ogni fiore di questa casa – dice in modo dignitoso – “li avevamo piantati noi”. Calpestati dai russi. Come le loro vite.

 ?? EMILIANO BOS/RSI ?? Sulla strada perBakhmut
EMILIANO BOS/RSI Sulla strada perBakhmut
 ?? EMILIANO BOS/RSI ?? Una donna con quel che resta della sua casa
EMILIANO BOS/RSI Una donna con quel che resta della sua casa
 ?? EMILIANO BOS/RSI ?? Nell’ospedale di Izium arrivano in media due persone a settimana con ferite da mine
EMILIANO BOS/RSI Nell’ospedale di Izium arrivano in media due persone a settimana con ferite da mine
 ?? EMILIANO BOS/RSI ?? Un uomo mostra un missile russo sul telefono
EMILIANO BOS/RSI Un uomo mostra un missile russo sul telefono

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