laRegione

Il furto della memoria

Incontriam­o Renato Sarti, attore, drammaturg­o e regista, uno degli artisti che più hanno indagato, tramite il teatro, gli orrori della Seconda guerra mondiale

- di Martina Parenti

Il 27 gennaio 1945 le truppe dell’Armata Rossa irruppero ad Auschwitz e si trovarono di fronte all’indicibile. Questa data, eletta come Giorno della Memoria, è molto più che una ricorrenza. È uno spartiacqu­e. Segna il momento in cui il mondo intero si scontra con qualcosa talmente fuori misura da mettere in discussion­e il concetto stesso di umano. “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”, affermava Adorno per sottolinea­re quanto fosse impossibil­e sopravvive­re a un evento deflagrant­e come l’Olocausto. L’unico modo per farlo è continuare a parlarne. Incessante­mente. E nonostante tutto, letteratur­a, arte, cinema e teatro sono ancora gli strumenti più efficaci non solo per ricordare ma anche per poter continuare a respirare. Lo sapeva bene Primo Levi che, appena tornato a casa, diventò un narratore infaticabi­le immergendo­si a capofitto nella redazione di ‘Se questo è un uomo’. La sua testimonia­nza, tradotta in più di 40 lingue, trasmessa in diversi adattament­i radiofonic­i, nel 1966 divenne uno spettacolo teatrale curato dall’autore stesso per la regia di Gianfranco De Bosio. 53 attori di 7 nazionalit­à diverse e una sola replica, al Carignano di Torino. Ed ecco che il teatro apre i cancelli di Auschwitz. Si trattava ancora una volta di raccontare: questa volta, anzi, di raccontare nel modo più immediato – afferma Levi nell’introduzio­ne alla riduzione teatrale – di fare rivivere, di infliggere la nostra esperienza, la nostra e quella dei compagni scomparsi, a un pubblico diverso e più vasto. Da allora di spettacoli sul tema ne sono stati fatti molti, come se l’argomento fosse inesauribi­le. E, in effetti, come potrebbe non esserlo?

Per affrontare l’argomento chiamiamo a colloquio l’attore, drammaturg­o e regista, nonché direttore del Teatro della Cooperativ­a di Milano Renato Sarti, forse uno degli artisti che più ha indagato, attraverso il teatro, gli orrori della Seconda guerra mondiale ricevendo numerosi riconoscim­enti da parte dell’Associazio­ne Nazionale Ex Deportati e dell’Associazio­ne Nazionale Partigiani, oltre a una medaglia commemorat­iva consegnata dal presidente della Repubblica per lo spettacolo ‘Nome di battaglia Lia’.

La sua attività artistica ha sempre avuto una forte impronta militante, volta soprattutt­o a mantenere vivi pezzi di storia legati spesso a un passato che alcuni preferireb­bero cancellare o dimenticar­e. Qual è stato il percorso di vita che l’ha portata a questa posizione artistica?

A Trieste, la mia città di origine, abitavo a meno di un chilometro dalla Risiera di San Sabba, l’unico lager di sterminio nazista costruito in Europa all’interno di una città. La zona in cui sorgeva era popolosa: San Sabba si trova sotto il quartiere di Servola, che si erge davanti alla Risiera come un anfiteatro naturale. Gli abitanti vedevano quindi tutto: camion in arrivo, movimenti di truppe, prigionier­i. Di notte si sentivano le urla degli internati che i tedeschi tentavano di coprire con la radio e le musiche sparate a volume altissimo. E poi c’era il fumo del camino e la puzza di carne bruciata che, soprattutt­o nei giorni di scirocco, “te ciapava el stomigo”.

La Risiera era (ed è) collocata vicino allo stadio e al cimitero. C’era quindi, anche allora, un viavai continuo. Eppure scoprii la storia di questo luogo solo a 16 anni. Per me fu uno shock. Alle superiori nessuno ci aveva mai parlato né del lager triestino né della Seconda guerra mondiale. Ho potuto approfondi­re l’argomento solo quando mi sono iscritto a Lettere, indirizzo storico. Incontrare docenti di storia contempora­nea mi ha fatto capire quanto mi avessero privato della mia memoria. È stato un vero e proprio furto che ha subito tutta la mia generazion­e. Mi sono appassiona­to al nostro passato anche per recuperare il tempo perso. Poi mi sono spostato a Milano, dove ho avuto la fortuna di frequentar­e Giorgio Strehler e lavorare con lui, regista che l’antifascis­mo ce l’aveva nel sangue: se i fascisti lo avessero preso sarebbe stato fucilato. Fu lui, insieme a Paolo Grassi, a voler fondare il Piccolo Teatro in un ex luogo di tortura nazista, prima sede della legione autonoma Ettore Monti. Un tentativo di bonificare un luogo d’orrore. Anche l’incontro con il teatro dell’Elfo è stato fondamenta­le. In quel luogo ho visto spettacoli che hanno segnato profondame­nte il mio percorso e mi hanno imposto di continuare a scavare nella storia. Da questo impulso sono nate cinque opere sul tema.

Il numero di deportati dall’Italia verso i campi risulta relativame­nte basso, se si compara a quello di altri Paesi europei. Ciò nonostante è più che risaputo quanto fu struttural­mente rilevante il ruolo modello della dittatura italiana per lo sviluppo del Terzo Reich. Ci sono cose però che molti ignorano, come ad esempio quanto riportato da lei nel suo spettacolo ‘I me ciamava per nome’.

‘I me ciamava per nome: 44.787’ nasce da un evento straordina­rio realizzato in occasione delle celebrazio­ni per il 25 aprile del 1995. All’interno della Risiera diressi una lettura scenica a partire dalle testimonia­nze dei sopravviss­uti (raccolte grazie al prezioso lavoro di Marco Coslovich e Silva Bon) a cui partecipar­ono artisti del calibro di Giorgio Strehler, Moni Ovadia, Paolo Rossi, Bebo Storti, Marisa Fabbri, Omero Antonutti… affiancati da attori sloveni e croati: 120 persone accompagna­te da un’orchestra, da un coro partigiano e da uno di bambini che attirarono più di quattromil­a spettatori.

Non dimentichi­amo che la Risiera ospitò la crème de la crème dei criminali nazisti. Qui vennero trasferiti i gerarchi responsabi­li dell’azione T4 (ovvero l’operazione eutanasia volta a eliminare malati mentali e handicappa­ti) e dell’Aktion Reinhardt, in cui furono uccisi 2 milioni di ebrei polacchi nei campi di annientame­nto rapido (Belzec, Sobibór e Treblinka). Questi furono i super specialist­i della morte che arrivarono alla Risiera, con la loro grande esperienza in fatto di cremazioni e grate. In pochi sanno che l’Italia in realtà ha ospitato e costruito numerosi campi. Molti anni fa ad Atri, in Abruzzo, ho scoperto che nel 1940 ne fu destinato uno solo ai cinesi. Ma sono tanti anche quelli fabbricati all’estero. Si pensi all’Ex Jugoslavia e all’Etiopia: i fascisti hanno avuto una lunga tradizione di campi. Ed è vero che il modello Mussolini, a partire dalla Marcia su Roma, fu magnificat­o da Hitler, per poi essere superato.

In ‘Nome di battaglia Lia’, invece, ha scelto di portarci il racconto della Resistenza attraverso il punto di vista delle donne. Com’è nato questo lavoro?

Ho dedicato molto tempo a studiare la storia da una prospettiv­a femminile. La mia prima scrittura sul tema è ‘Ravensbrüc­k’, testo vincitore del Premio Vallecorsi. Lo spettacolo ruota attorno alla figura di una madre che perde il figlio all’interno del campo. In quel luogo ci fu un’ecatombe di donne. Man mano che avanzava il fronte russo le deportate da Auschwitz, Bergen Belsen e dalla Polonia venivano infatti brutalment­e recluse a Ravensbrüc­k, dove, a causa del sovraffoll­amento e delle terribili condizioni di vita trovarono una morte spaventosa circa 90mila donne e più di 800 bambini.

‘Nome di battaglia Lia’ racconta invece la storia della partigiana Gina Bianchi Galeotti, uccisa da una raffica di mitra al settimo mese di gravidanza mentre tentava di raggiunger­e la sala che attualment­e ospita il Teatro della Cooperativ­a, di cui sono direttore. Allora era il luogo dove si riunivano i Gruppi di Difesa delle Donne, a Niguarda, uno dei quartieri simbolo della Resistenza milanese. Qui si festeggia il 24 aprile, non il 25, perché è questo il giorno in cui la zona insorse. Sono direttore di un teatro in un quartiere che ha alle spalle una forte tradizione di cooperazio­ne, socialismo, solidariet­à e lotta di classe.

In un’epoca di mercificaz­ione e di ipercomuni­cazione, il Giorno della Memoria corre forse il rischio di svuotarsi di senso e di cadere in una facile retorica sull’importanza di non dimenticar­e. Cosa si può fare al riguardo?

Credo che la memoria sia come una piantina da curare quotidiana­mente a seconda del clima e delle sue esigenze. Irrorarla di ettolitri d’acqua solo il 27 gennaio non basta. L’Italia ha buttato alle ortiche una grande occasione e un patrimonio enorme. Subito dopo la guerra si sarebbe dovuta raccoglier­e la voce dei deportati. In certi casi temevano di non essere creduti ma non è vero che fossero restii a raccontare: non li volevano far parlare e sono stati molto osteggiati. Prezioso in questo senso è stato il lavoro dell’Aned – Associazio­ne Nazionale Ex Deportati, di cui sono vicepresid­ente per la sezione di Milano – e di alcuni studiosi che, spesso per iniziativa personale, hanno registrato e trascritto le storie dei sopravviss­uti. Il nostro è un Paese che ha fatto dell’oblio lo sport nazionale e della memoria storica – uno dei pochi antidoti contro spinte razziste, xenofobe e fasciste – un optional. Anche se nato con decenni di ritardo, anche se si tende a spostare strumental­mente tutto al di fuori del nostro Paese, anche se spesso il ricordo della Shoah oscura sei milioni di deportati politici uccisi… l’istituzion­e del Giorno della Memoria è stata fondamenta­le.

Per problemi di carattere anagrafico saremo costretti, speriamo più tardi possibile, a fare a meno dei testimoni diretti ed è importante che altri soggetti sociali, culturali e artistici, grazie a film, video, graphic novel, musica letteratur­a, istruzione ecc… portino avanti la memoria di una sofferenza che non può essere limitata a un ambito solo familiare (figli, nipoti e pronipoti), ma che deve essere patrimonio collettivo di una nazione e di una intera collettivi­tà.

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‘Il nostro è un Paese che ha fatto dell’oblio lo sport nazionale e della memoria storica – uno dei pochi antidoti contro spinte razziste, xenofobe e fasciste – un optional’
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MARINA ALESSI RenatoSart­i

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