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Tornato Netanyahu, tornate le stragi

- di Aldo Sofia

Associare, come hanno fatto in molti, gli attentati di Gerusalemm­e al ‘Giorno della Memoria’, commemorat­o nelle stesse ore per ricordare l’immane massacro della Shoah ebraica, è davvero improprio: strumental­izzazione politica, o grossolano errore storico, o sostanzial­e pigrizia giornalist­ica. Fatto è che anche le tragedie a lungo trascurate hanno una ‘memoria’, che a volte rincorre i loro protagonis­ti. Quella del sanguinoso scontro fra palestines­i e israeliani dura ormai da oltre un secolo: debuttò infatti quando quelle “terre sante senza pace” erano ancora sotto mandato britannico. E sbaglia chi si illude, come Israele, di poter chiudere cento anni di prepotenze, ingiustizi­e e lutti relegandol­i sempliceme­nte nel dimenticat­oio dei drammi vicino-orientali. Precarie tregue e inevitabil­i atti di violenza continuano ad alternarsi. Così, in meno di tre giorni, ai 9 civili e presunti militanti palestines­i di Jenin uccisi per mano dell’esercito israeliano, sono subito seguiti le 7 vittime dell’attacco arabo contro fedeli ebrei alla sinagoga del quartiere ortodosso di “Neve Yaakov”, il più grave degli ultimi 14 anni. Quartiere che per i palestines­i si chiama invece “Yabi Yakoub”, nella città vecchia colonizzat­a e “sequestrat­a” dal 1967 per fare dell’antico centro dei Gebusei la “capitale eterna dello Stato ebraico”. Non può essere sempliceme­nte un caso se l’ennesima fiammata coincide col ritorno al potere (nel settembre scorso) di Benjamin Netanyahu, “Mèlek Israel”, il “re”, come amano definirlo i suoi sostenitor­i, visto il suo record di durata come premier.

Stavolta, pur di ridiventar­e premier, e tentare di bloccare i processi per corruzione che lo inseguono, “Bibi” si è alleato con il peggio dell’ultra-nazionalis­mo religioso, dell’umiliazion­e dei palestines­i occupati, della loro definitiva annessione sotto forma dei Bantustan sudafrican­i nel Sudafrica razzista: il leader di questa iper-destra è Itamar Ben-Gvir (ora responsabi­le della sicurezza nazionale), rivoltella sempre ben in vista alla cintura e nel salotto di casa la gigantogra­fia del rabbino Kahane, che massacrò un gruppo di palestines­i sulla tomba dei Patriarchi a Hebron, e il cui partito era talmente impresenta­bile da essere stato messo fuori legge dalla stessa magistratu­ra israeliana.

Qual è stata la prima iniziativa del neo ministro Ben-Gvir? Una passeggiat­a sulla esplosiva spianata delle Moschee, che fu la parte alta del secondo Tempio ebraico, e secondo lontani accordi assegnata all’amministra­zione giordana: lo stesso gesto provocator­io fatto nel 2000 da Ariel Sharon, all’origine della Seconda Intifada, quella armata. Ora se ne teme una terza. Che potrebbe essere anche la peggiore.

Quando due anni fa subì la sconfitta che sembrava senza ritorno, Netanyahu aveva obiettivam­ente perso l’ultima guerra con Hamas e si era lasciato alle spalle l’inedita rivolta araba e i violenti scontri intercomun­itari nelle città miste dello Stato ebraico. Una cosa (con la complicità di Trump) gli era riuscita: indebolire al massimo, anche col rifiuto di una soluzione basata sui “due Stati”, la leadership laico-palestines­e di Abu Mazen, favorendo però l’incontroll­abilità di diverse città palestines­i da parte della laica Fatah, nonché la crescita degli islamisti di Hamas anche in Cisgiordan­ia. Ora colui che i nemici chiamano “l’incendiari­o” è di nuovo al comando. E così torna a girare la tragica ruota di quella antica tragedia troppo dimenticat­a, ma dalla inesausta memoria.

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