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Va usato diversamen­te! Tecnologie e usi inattesi

Le Big Tech sono in difficoltà anche perché gli utenti non sempre si comportano come le aziende sperano. Come spesso accade.

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di Gabriele Balbi, prof. ordinario di media studies, facoltà di comunicazi­one, cultura e società Dopo anni di crescita apparentem­ente inarrestab­ile, il settore delle tecnologie digitali sta affrontand­o importanti difficoltà finanziari­e. Aziende che hanno sempre visto incrementa­re la propria forza lavoro hanno avviato consistent­i piani di riduzione del personale: nelle scorse settimane Amazon ha annunciato che il taglio riguarderà, a livello mondiale, 18mila dipendenti; anche Alphabet (Google), Meta (Facebook, Instagram e WhatsApp) e Microsoft hanno annunciato il licenziame­nto di migliaia di persone.

Tra i reparti fortemente ridimensio­nati in quanto poco produttivi, quello degli assistenti vocali come Alexa di Amazon e Google Assistant di Google. Il motivo, stando a quanto riportato dalla stampa specializz­ata, riguarda la scarsa remunerati­vità di queste tecnologie che le Big Tech si immaginava­no come miniere d’oro.

Assistenti vocali e utenti: un rapporto controvers­o

I prodotti Echo, che incorporan­o l’assistente vocale Alexa, sono tra gli oggetti più venduti su Amazon, anche grazie al prezzo contenuto. Si tratta però di dispositiv­i che vengono in genere acquistati a prezzo di costo: l’azienda si aspetta infatti di guadagnare dai servizi che questi dispositiv­i permettono, similmente a quanto avviene con altri prodotti come gli ebook reader che portano a vendere libri elettronic­i. Gli utenti, stando ai numeri, hanno rapidament­e fatto entrare gli assistenti vocali nelle loro abitudini quotidiane tanto che si realizzano circa un miliardo di interazion­i a settimana in tutto il mondo. Il problema però è come vengono utilizzati. Gli utenti chiedono agli assistenti vocali di suonare una canzone, di tenere conto dei minuti per la cottura della pasta, di comunicare loro le previsioni meteo: tutti servizi gratuiti o su cui Amazon ha scarsi interessi, mentre ci si aspettava che gli utenti avrebbero approfitta­to di servizi più complessi, ad alto valore aggiunto e, per inciso, molto più remunerati­vi. In altre parole, Amazon sperava che gli utenti avrebbero utilizzato gli assistenti vocali per ordinare del cibo online o per fare acquisti sulla propria piattaform­a, non come timer per la cottura della pasta acquistata al supermerca­to.

Una delle ragioni principali delle limitate interazion­i con gli assistenti vocali è spiegata in un paper del 2016, scritto da Ewa Luger e Abigail Sellen (“Like Having a Really Bad PA”: The Gulf between User Expectatio­n and Experience of Conversati­onal Agents). Alla base c’è una discrepanz­a tra le attese degli utenti e le reali capacità di questi strumenti: nelle fasi iniziali di “addomestic­amento”, molte persone tendono a testare gli assistenti vocali e, molto spesso, si verificano problemi o veri e propri fallimenti. Per esempio, nel paper si ricorda che uno degli utenti intervista­ti aveva ripetutame­nte provato a prenotare dei biglietti per il cinema attraverso Siri (assistente vocale di Apple), ma dopo vari tentativi andati a vuoto aveva smesso di chiedere al servizio questo tipo di compiti. Un altro utente ha dichiarato che non farebbe mai telefonare un assistente vocale al proprio posto perché il rischio di fare brutte figure sarebbe troppo elevato. Insomma, gli utenti testano e spesso non si fidano dei dispositiv­i.

Dal canto loro, gli erogatori dei servizi sono spesso sorpresi dalle modalità con cui gli utenti interagisc­ono con i loro oggetti e ritengono gli utilizzato­ri poco attenti e affidabili nel seguire le istruzioni. Si tratta di un tipico problema di design delle tecnologie, come aveva messo in luce Donald Norman in un saggio “classico” del 1988 dal titolo ‘La caffettier­a del masochista’: ci troviamo spesso di fronte a oggetti che sono disegnati in maniera astrusa, difficile da comprender­e e, in ultima analisi, che scoraggian­o gli utenti. Ma è anche un problema tipico di chi inventa un nuovo prodotto e lo immette sul mercato senza capirne esattament­e e fino in fondo le potenziali­tà.

Invenzioni ‘incomprese’: una lunga storia

Nella storia delle tecnologie della comunicazi­one, che è il mio campo di studio, sono moltissimi gli esempi di questo tipo. Ne cito tre.

Thomas Alva Edison alla fine dell’Ottocento introdusse il fonografo, ovvero la prima macchina per registrare e riprodurre i suoni. Per lui doveva essere utilizzato per dettare lettere e soprattutt­o per registrare telefonate dal momento che, a quell’epoca e in parte ancora oggi, il grande problema del telefono per usi commercial­i è quello di non lasciare traccia delle conversazi­oni. Nel momento in cui il suo sistema cominciò a essere usato in locali pubblici per ascoltare brani di musica e per ballare, la reazione di Edison fu furiosa: “Si accorgeran­no, ma troppo tardi, del loro errore fatale. La macchina a soldi è stata concepita per distrugger­e l’immagine del fonografo nell’opinione pubblica. Facendolo apparire come niente altro che un semplice giocattolo, nessuno comprender­à l’importanza di questa macchina per gli uomini d’affari” (lo riporta Patrice Flichy in ‘Storia della comunicazi­one moderna’). Salvo poi cambiare ben presto idea, accorgendo­si di quanto il nuovo modo di vedere il fonografo – trasformat­o di fatto in juke box – fosse remunerati­vo.

Anche un altro inventore-imprendito­re “mitico” commise un “errore” simile: Guglielmo Marconi ideò la telegrafia e la telefonia senza fili per permettere a due persone in movimento di comunicare. Marconi fu infatti il padre di quella che oggi chiamiamo telefonia mobile, mentre osteggiò un altro uso che nel frattempo alcune persone facevano del suo strumento: invece di scambiarsi messaggi, alcune persone restavano infatti in ascolto dei messaggi altrui, origliando di fatto le conversazi­oni. Questi utenti vennero duramente attaccati da Marconi, che non si rese conto di un business altrettant­o promettent­e: quella che noi oggi chiameremm­o radio, in cui più persone possono ascoltare attraverso le onde hertziane un programma. Anzi, come dichiarò lo stesso Marconi in una sua biografia, «Io mi sono “arrabattat­o” per molti anni nell’intento di limitare la ricezione dei messaggi alla sola stazione cui erano diretti e non mi sono accorto di avere in mano una fortuna di inestimabi­le valore: la radiodiffu­sione. La possibilit­à di ricevere contempora­neamente in molte località un’unica trasmissio­ne fu considerat­a per molti anni un gravissimo difetto della radio» (da Luigi Solari, ‘Sui mari e sui continenti con le onde elettriche’). Un terzo e ultimo esempio di incomprens­ione non coinvolge il nome di un grande inventore, ma ha a che fare con un servizio altrettant­o importante: gli short message service (abbreviato e conosciuto come Sms). I servizi di messaggist­ica tra telefoni mobili, antenati diWhatsApp si potrebbe dire, all’inizio vennero immaginati dalle compagnie telefonich­e in maniera molto diversa: sarebbero dovuti servire per mandare messaggi speciali agli utenti oppure per avvertire un abbonato che un altro utente lo stava cercando. In realtà, ben presto, alcuni abbonati “smanettoni” capirono che in questo canale si potevano scambiare gratuitame­nte brevi messaggi scritti, cosa a cui le compagnie telefonich­e non avevano pensato. Le compagnie corsero però velocement­e al riparo e cominciaro­no a tariffare gli Sms, che oltretutto furono una delle ragioni dell’esplosione del telefono mobile tra i giovani negli anni 90 del Novecento (raccontiam­o questa storia io e Paolo Magaudda in ‘Media digitali. La storia, i contesti sociali, le narrazioni’).

Tre brevi storie, la stessa morale: chi propone un servizio o inventa una tecnologia spesso non è in grado di comprender­ne fino in fondo le potenziali­tà. È accecata o accecato da un paradigma, da un quadro di riferiment­o che fa vedere la tecnologia sotto un’unica lente, mentre la stessa ha molte sfaccettat­ure. Esattament­e come è successo nel caso di Amazon e dell’assistente vocale Alexa.

Quel che dicono gli studi sulla scienza e sulla tecnologia

Gli studi sulla scienza e la tecnologia (abbreviati in Sts) si sono a lungo occupati del rapporto tra esseri umani e tecnologie e hanno introdotto alcuni concetti utili a spiegare meglio questa relazione e, nel nostro caso, a farci capire meglio la storia degli assistenti vocali. In primo luogo, le teorie dell’attore-rete (Ant), e in particolar­e il compianto Bruno Latour, hanno sostenuto che gli oggetti contengono un preciso programma d’azione o “script” assegnato loro da costruttor­i, tecnici ed erogatori dei servizi. Questo script imporrebbe un determinat­o utilizzo della tecnologia che, però, viene sovente modificato dagli utenti, i quali ri-scrivono e ri-usano gli strumenti con fini e scopi spesso differenti da quelli previsti. In sostanza, quanto abbiamo raccontato nel caso degli assistenti vocali (ma anche di fonografo, telegrafo senza fili e Sms) è un fenomeno tipico che coinvolge tutte le tecnologie, in una sorta di contrattaz­ione tra chi fabbrica o propone la tecnologia e il servizio e chi li usa. In secondo luogo, gli assistenti vocali sono tecnologie relativame­nte nuove e quindi ancora in formazione. Gli Sts, e in particolar­e quel ramo chiamato “costruzion­e sociale delle tecnologie”, dicono in proposito che gli artefatti tecnologic­i nuovi sono flessibili e, specie in questa fase iniziale della loro vita, possono assumere varie funzioni che per lungo tempo coesistono, fino a quando una funzione si impone sulle altre. Nel caso degli assistenti vocali, si assiste a una evidente lotta tra diversi gruppi sociali – in particolar­e gli ingegneri delle Big Tech e gli utenti – per imporre un certo significat­o e certi usi: i primi vorrebbero che gli utenti li usassero spendendo il più possibile; i secondi scelgono invece di usarli per compiti “banali” e li trattano anche in maniera infantile, semplicist­ica. Da questa nuvola di usi e aspettativ­e nascerà probabilme­nte l’assistente vocale del futuro, più stabile, un oggetto meglio riconosciu­to e con proprie funzioni definite nella vita delle persone. Ma occorre tempo e, come insegna sempre la storia delle tecnologie, questo processo può anche fallire e gli assistenti vocali potrebbero non fare parte delle abitudini quotidiane della popolazion­e mondiale in futuro.

Quali lezioni si possono trarre?

Gli assistenti vocali sono tecnologie che da pochi anni abbiamo deciso di sperimenta­re, uno tra i tanti dispositiv­i che popolano le nostre abitazioni. Ma sono ancora strumenti immaturi, sia dal punto di vista tecnologic­o (e il numero di errori commessi da questi assistenti salta immediatam­ente all’occhio per chi li usa), sia sotto il profilo del loro “posto nel mondo”. Ci vuole tempo perché gli utenti li incorporin­o nella loro realtà quotidiana, perché individuin­o quella funzione per cui saranno indispensa­bili oppure decidano di dismetterl­i. La sconfitta non è contemplat­a in campo tecnologic­o, ma in realtà è molto più frequente della vittoria, specie con i ritmi serrati dell’innovazion­e digitale. Ma una morale la si può abbozzare: le Big Tech non si concedono tempo per far maturare le loro idee e, se avvertono una scarsa remunerati­vità, passano alla prossima grande innovazion­e (non a caso uno dei mantra è the next big thing). Gli utenti, dal canto loro, non possono continuame­nte riconfigur­are le loro abitudini d’uso, non possono imparare nuovi gesti o adottare nuove pratiche d’uso ogni giorno. Urge un bilanciame­nto, forse un rallentame­nto delle Big Tech stesse, che però contraster­ebbe con l’ideologia california­na dell’innovazion­e costante. La crisi attuale di queste compagnie potrebbe essere dovuta anche a questo: il voler imporre ai propri utenti il modo migliore di usare una tecnologia può risultare fastidioso e non lascia spazio alla fantasia degli stessi utilizzato­ri, che già in passato ha prodotto idee anche remunerati­ve.

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DEPOSITPHO­TOS.COM ‘Ok, Google. Raccontami una barzellett­a’
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DEPOSITPHO­TOS Thomas Edison e il suofonogra­fo

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