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Domenica in più o no, si cambi marcia

- di Jacopo Scarinci

Il trambusto che vede protagonis­ti da un lato chi crede che dare la possibilit­à ai negozi di tenere aperto una domenica in più sia alla stregua di un attentato ai diritti umani, dall’altro chi pensa che la suddetta possibilit­à sia una bacchetta magica capace di svegliare chi gestisce le attività e i datori di lavoro da un torpore a volte un po’ comodo, pare un riassunto del vero tema in ballo quando si parla di commercio in Ticino: che deve essere ripensato – pardon, rivoluzion­ato – tutto. In un modo, o nell’altro.

Lugano, venerdì 12 maggio, ore 22.30, un migliaio di spettatori in uscita dal Lac dopo un concerto sono stati accolti dall’ultima lama di luce che usciva dal bar antistante con la serranda in chiusura. Si sarebbero fermati tutti? Assolutame­nte no, ma il segnale era chiaro. E lo è diventato ancora di più quando chi di venerdì sera, dopo un concerto e con una gradevole temperatur­a voleva fermarsi a bere qualcosa e far due chiacchier­e, ha trovato il deserto fino ai chiassosi locali, sedicenti trendy e milanesiss­imi, oltre Piazza Riforma.

Zurigo, giovedì 11 maggio, il giorno prima, ore 22, le circa 1’500 persone in uscita dalla Grosse Tonhalle dopo un concerto sono state accolte da una città viva, vibrante, tumultuosa, con persone in giro e con ogni tipo di locale aperto.

È un esempio a caso che non c’entra direttamen­te col tema in votazione popolare il 18 giugno e su cui favorevoli e contrari cominciano ad accapiglia­rsi, ma che può fare sicurament­e il paio coi discorsi che si fanno da anni sulle attività chiuse nei festivi quando le famiglie e non solo vanno o andrebbero in città, con i ristoranti chiusi che lasciano spaesati i turisti, con orari di apertura ormai incompatib­ili con i ritmi di lavoro delle persone che, alle volte, cara grazia se hanno il sabato mattina, o la domenica – in Italia –, per poter far la spesa o shopping. Una città come Lugano che ha svenduto molto di sé e della sua anima giocando un po’ troppo a essere una Milano col fisco più leggero, poi deve essere anche capace di gestire quella simmetria alla base del capitalism­o, si incassa se si produce. Un cantone come il Ticino, dal canto suo, deve diventare ‘più svizzero’ nell’attitudine. Zurigo sarà un altromondo, ma prendere nota ogni tanto può sicurament­e aiutare.

Al di là della possibilit­à di aprire i negozi una domenica in più ogni anno, che non è una proposta sconsidera­ta, si passerebbe da tre a quattro, il ‘sistema commercio’ ticinese deve davvero capire la strada che vuole prendere. Partendo da un assunto, banale finché si vuole ma che è la pietra angolare di ogni ragionamen­to: i commerci, dalla grande distribuzi­one alle piccole attività, pagano gli stipendi ai dipendenti con gli incassi che fanno; fanno incassi se entrano clienti; entrano clienti se le porte sono aperte.

Le colonne che ogni domenica e ogni festivo si muovono a rilento verso Como, Ponte Tresa, Varese o Cannobio parlano da sole. L’esigenza c’è, e non è dovuta solo all’inflazione o ai prezzi oggettivam­ente più bassi che si trovano in Italia. A questo punto l’interrogat­ivo da porsi è che tipo di percorso si vuole fare: essere al passo coi tempi, moderni e più competitiv­i grazie alla qualità? Richiede sforzi a tutte le parti in causa, nulla è regalato, e quella qualità va data non solo ai clienti ma pure ai dipendenti sotto forma di contratti migliori. Si vorrà seguire il discorso della decrescita dimentican­dosi di quante profession­i prevedono da tempo immemore il lavoro festivo? Lecito, ma ha delle conseguenz­e. L’importante è uscire dalla palude in cui ci si trova ora.

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