Sì, viaggiare…
Nel corso dei decenni, ciascuna a proprio modo, motocicletta e bicicletta hanno alimentato un immaginario fatto di esplorazione, avventura, velocità, adrenalina, limiti
Vento in faccia, l’orizzonte davanti agli occhi (tutto da mangiare), l’odore dell’aria e il profumo della libertà, respirata a pieni polmoni… Sono alcuni, pochi – si voglia anche banali – cliché che connotano e accomunano bicicletta e motocicletta. Moto e bici, tuttavia, non sono semplicemente veicoli; soprattutto sono mezzi che trasmettono un’idea, un’immagine, una metafora (ciascuno la propria) e tanta passione. Un immaginario che negli anni è stato cantato da vari generi: dalla letteratura al cinema; dalle eroiche cronache giornalistiche (in particolare ciclistiche) alla musica, che suona il rombo spregiudicato di motori, e le epiche, faticose salite macinate dalle gambe. Ma non sono queste le righe per approfondirne origini, contenuti e narrativa, perché l’intento è solleticare le orecchie proponendo una personalissima (chi scrive aborrisce i superlativi, ma ogni tanto ci vogliono) e, per forza di cose, lacunosa selezione musicale. Spregiudicatezza e fatica; sudore e adrenalina; pregiudizio e disciplina; silenzio e rumore; rock e ballata… potrebbero essere titoli emblematici (e dicotomici) per una musicassetta immaginaria (che spazia negli anni fra lingue italiana e inglese) che ora facciamo partire:
Lato A
La canzone per eccellenza dedicata alla motocicletta e alla vita
on the road è Born to be Wild degli Steppenwolf, resa celebre dalla colonna sonora del film culto Easy Rider (1969) di Dennis
da infrangere… Con o senza motore, con più o meno fatica, da sempre la sella è metafora di libertà assoluta, tanto da sfiorare il mito. E non poteva non essere messa in musica.
Hopper. Come non citare allora Little Honda (1964) dei Beach Boys; Gypsy Biker (2007) di Bruce Springsteen; Ride the Wild
Wind (1991) dei Queen; Midnight Rider (1970) dell’Allman Brothers Band e – per terminare la sfilza anglofona – Arlo Guthrie con The Motorcycle Song (1967).
Pensando in italiano, come non far galoppare in testa i 10 HP de Il tempo di morire (1970) cantata da Lucio Battisti, il pumpumchà che apre La mia moto (1989) di Jovanotti o il rombo di Un giorno così (1997) degli 883, concludendo il Lato A con Due dita sotto il cielo (2007) che Lucio Dalla ha dedicato al Dottore, Valentino Rossi.
Lato B
Girando la cassetta, ecco risuonare il “naso triste” del Bartali (1984) di Paolo Conte e le manette “che brillano al sole come due biciclette” ne Il bandito e il campione (1993) cantata da Francesco De Gregori, quelli “rossi col fiatone” di Sotto questo
sole (1990) sono invece di Francesco Baccini. Non si può non menzionare Pedala (2014) di Frankie hi-nrg mc, ma anche Il
quartiere è cambiato (2016) degli Assalti Frontali, Sono felice
(1993) degli Elio e le storie tese e la bella Alfonsina e la bici
(2010) dei Têtes de Bois (nel videoclip c’è Margherita Hack!) che cantano la celebre ciclista italiana Alfonsina Strada (1821-1959), appunto.
Se in italiano i pedali musicali mulinellano sostenuti, in lingua inglese i giri si fanno più lunghi con il riverbero dei campanelli di Bicycle Race (1978) dei Queen e Bicycle Song (2002) dei Red Hot Chili Peppers, anche se con la bici ha ben poco a che fare…
Bonus track
Alla vista di una bicicletta – una bella bicicletta – nella testa di chi scrive parte “I’ve got a” Bike (1967) composta da Syd Barrett e brano conclusivo dell’album d’esordio dei Pink Floyd (il più psichedelico e fra i principali del genere), The Piper at the
Gates of Dawn.
A concludere questa musicassetta immaginaria, Ezy Ryder (1969, col titolo ‘Slow’) di Jimi Hendrix mai pubblicata in un album, se non nella raccolta postuma The Cry of Love.