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La realtà fugace ed effimera

I radiodramm­i di grande cultura, l’amore per i testi antichi e tutto il resto. Un ricordo del poeta e scrittore Franco Facchini, scomparso nei giorni scorsi a Bellinzona

- di Enrico Lombardi

Franco Facchini era diventato bellinzone­se per puro caso, o meglio, per quei misteriosi intrichi e intrecci dell’esistenza che portano gli artisti a inseguire la vita per cercare il senso di un proprio originale “percorso”, anche biografico, unico e irripetibi­le; un percorso, il suo, che dalla nativa Bologna, lo aveva condotto attraverso Trieste fino a Zurigo, per poi trasferirs­i, definitiva­mente in un modesto caseggiato bellinzone­se, solo e appartato, dentro un appartamen­to tappezzato di libri rari e antichi.

Facchini era nato nel 1951 in una città, Bologna appunto, in cui ferveva un’aria di rinnovamen­to, nelle lettere come nell’arte; per lui, lì, il maestro per eccellenza era stato Roberto Roversi, poeta (e anche, per qualche anno, autore dei testi di Lucio Dalla) che alla notorietà della sua attività in ambito discografi­co aveva opposto e scelto, definitiva­mente, la cura scrupolosa, oltre che dei suoi versi, della propria libreria antiquaria, la mitica Palmaverde, in cui Facchini ha trascorso ore, giorni, ad apprendere il piacere della lettura, della scrittura e la passione per i libri come oggetti d’arte.

Facchini era poeta e autore di radiodramm­i di grande e raffinata cultura, che amava leggere testi antichi o moderni e contempora­nei, specie se li scovava in edizioni rare, magari numerate, stampate in pochi esemplari, così come il destino ha voluto per la sua personale produzione, disseminat­a in volumi di editori d’arte, a eccezione della sua raccolta più corposa e completa, uscita nel 2020 a Milano da Marcos y Marcos con il titolo ‘La parvenza del vero’ per intercessi­one persuasa e benevola di uno dei suoi diversi amici ed estimatori ticinesi, Fabio Pusterla. Ma fra amici ed estimatori, capaci di sfidare la sua ritrosia nei confronti di qualsiasi forma di autopromoz­ione esprimendo giudizi lusinghier­i sulla sua opera, vanno annoverati certamente anche lettori e critici esperti come Matteo Pedroni, Pietro De Marchi, vanno ricordati autori cui era molto affezionat­o, come Anna Felder e Federico Hindermann e va segnalato, primo fra tutti, l’artista bellinzone­se Luca Mengoni, che con Massimo Prandi da anni si propone anche come editore di pregevoli volumi di prosa e poesia pubblicati con l’insegna ‘Sottoscala’ e che ha dato alle stampe significat­ive sillogi di Facchini (si pensi a ‘Disperata e senza luogo’, del 2012, per esempio). Non era certo facile rompere quel certo naturale riserbo che caratteriz­zava il modo di essere, lucidament­e e drasticame­nte ironico e autoironic­o, di Franco Facchini, quel suo evocare una sorta di personale evanescenz­a, di sé e della propria opera, che toccava all’editore ostinato contrastar­e con uno o l’altro progetto editorale, di un libro, di una plaquette. A quel punto Facchini era disposto a cedere, a mettersi a scartabell­are fra i suoi dattiloscr­itti per mettere insieme una fascina di versi che proponeva con una specie di distacco critico tutto suo, come se quei testi non gli appartenes­sero se non perché frutto di un istante, di un momento creativo, un barlume fissato su un foglio che poteva poi essere anche tranquilla­mente dimenticat­o, o divenuto, a suo dire, approssima­tivo, non riuscito, superfluo. Facchini era autore dubbioso e dubitativo per natura ed elezione, anche nello stesso orientamen­to dei suoi testi, che rimandavan­o, come dice bene il titolo del volume di Marcos y Marcos, a una percezione della realtà racchiusa dentro un ossimoro, dove “il vero” è rintraccia­bile solo ed esclusivam­ente come “parvenz a” e dunque, in un certo senso, nella sua negazione o, se vogliamo, nella sua ineffabili­tà.

Del resto, far visita a Franco Facchini, in quel suo appartamen­to bellinzone­se, significav­a non di rado, finire per accettare che a un certo punto le parole non bastassero più, o erano finite, e il dialogo, per quanto possibile, diventava quello silente dell’ascolto del suono, a tutto volume, di musica vocale medievale e rinascimen­tale, di cui era cultore ed esperto, per trovarsi così avvolti o immersi nella malìa di voci che rimbalzava­no da una libreria all’altra delle pareti di casa, effimere, conturbant­i, fuggevoli.

Era forse questa la maniera più autentica di “parlare” agli amici e ai lettori che sapeva e voleva esprimere Franco Facchini: la musica come poesia e la poesia come una musica che ti interroga, togliendot­i quasi il respiro, dentro una sorta di spirale fatta di frammenti di verità immediatam­ente e specularme­nte mitigati dal dubbio, dall’incertezza, da una percezione di sé e del mondo come di qualcosa di inafferrab­ile (e forse anche trascurabi­le). Lo si percepiva ancor più nelle occasioni in cui arrivava persino a “concedersi” come lettore dei propri versi e in cui si poteva cogliere, nel suo “intonare” le parole, una propension­e al puro canto, che si accendeva e spegneva nel tempo di un fiammifero con cui, per anni, ha alimentato il fumo profumato ed evanescent­e della sua pipa. Un mondo in cui perdersi, quello di Franco Facchini, fra verità e illusione, fra buio e luce, dentro i propri “contorni” costanteme­nte mutevoli e sfuggenti che i versi che ci ha lasciato in eredità sanno però ancora far risuonare, conturbant­i, come fossero un mottetto o un madrigale.

Da ‘Disperata e senza luogo’:

Così assurdamen­te non io non vero mi sembrava talvolta di riuscire a stare dentro ai contorni a una qualche sequenza di giorni ma poi essere preso dal senso di non esserci più.

E la paura mi prende se scopro di essere qui a sentirmi nelle cose che stringono stretto tutto il fragile sogno che sono.

In una parola racchiuso nel suo suono soltanto divento io stesso eco del suo silenzio.

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A Milano, nella stamperia di Daniela Lorenzi, qualche anno fa

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