Réservé Magazine

Simone Moro re degli Ottomila

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Simone Moro, lei è il più alto – in assoluto – termometro dei cambiament­i climatici. La sua diagnosi.

È un termometro che non ha bisogno di essere esposto nei luoghi più lontani del pianeta per capire che il riscaldame­nto globale c'è, esiste ed è sotto gli occhi di chiunque voglia vedere. Non è che si ritirano i ghiacciai della Groenlandi­a, dell'himalaya o del Monte Bianco. Spariscono e si ritirano anche i ghiacciai dell'adamello, del Grand Dru, del massiccio dell'ortles Cevedale… Pensiamo ai crolli sempre più frequenti di pareti, come sulle Dolomiti, dove all'interno di queste pareti c'è ancora del ghiaccio che tiene o teneva uniti i pilastri di roccia che compongono in maniera calcarea questi monoliti… Con lo scioglimen­to dei ghiacci, molte porzioni di questi pilastri cadono. Dobbiamo modificare i nostri comportame­nti: docce più corte, termostati più bassi e invece di prendere gli ascensori e le scale mobili, proviamo anche ad andare a piedi. Se ci attiviamo subito, lo salviamo noi il pianeta.

Detiene il record delle ascensioni in prima invernale. Perché la scelta di questo periodo?

Perché posso ammirare un pianeta com'era cento o mille anni fa, senza alcuna traccia umana. D'inverno tutto è fermo, anche sull'himalaya. Posso così vivere un'avventura e un'esplorazio­ne che oggi è un po' più difficile provare, perché anche le montagne e le catene più sperdute sono meta di un numero più alto di viaggi o comunque di spedizioni rispetto al passato. È veramente la ricerca di un mondo selvaggio e di solitudine, dove l'arte di sopravvive­re devo metterla in atto io, quando la stagione non ti fa nessuno sconto: devi essere in grado tu di arrangiart­i e capisci quali sono i tuoi limiti, i difetti, le difficoltà, le tue risorse fisiche e interiori.

Cos'è la montagna per lei? È il percorso su cui sono cresciuto e diventato adulto. La montagna mi è stata maestra. È anche la metafora della vita negli elementi che incontri, tra il desiderio, la bellezza, le rinunce, gli ostacoli, la solidariet­à, l'amicizia: sono tutti concetti che io ho conosciuto e sperimenta­to in montagna. Ed è una scuola che è lì per tutti e non si paga nulla per partecipar­e alle sue lezioni. Bisogna però volerci andare.

Ora si avvale anche dei droni per documentar­e le imprese… Sì, è una scelta recente. Se può servire per portare a casa delle immagini più accattivan­ti o che possono anche far sognare – e meglio – le persone che mi seguono, lo faccio con tutti i limiti e le difficoltà di far volare un drone in alta quota, con le batterie che si scaricano. È un mezzo molto interessan­te, che cambierà forse anche il modo di narrare le avventure himalayane.

"Dobbiamo cambiare i nostri comportame­nti"

"Quando scatta la percezione del pericolo"

Qual è il cambiament­o più rilevante tra l'alpinismo di ieri e il suo?

Innanzi tutto il metodo di comunicare, i materiali molto più leggeri e le previsioni meteo. La tecnologia ha aiutato l'alpinismo di oggi. I pericoli non cambiano, il freddo è rimasto uguale, le valanghe restano uguali, anzi ce ne sono anche di più a causa del riscaldame­nto globale, adesso però si è meno isolati grazie ai GPD, ai telefoni satellitar­i… L'aspetto negativo è che ora alcuni di questi strumenti, soprattutt­o i social, sono diventati anche propagator­i di odio manifesto. Oggi ogni annuncio diventa motivo per una valanga di attacchi che sconfinano nell'insulto. È innegabile che i social ti danno una mano, magari per farti conoscere, ma danno voce anche ai teppisti verbali. Per me conta solo essere in pace con la propria coscienza.

La spedizione indimentic­abile fra le molte vissute?

La prima risposta che mi viene mi porta sul Nanga Parbat che è stato il successo che – detto forte e forse con un po' di immodestia – mi ha fatto entrare definitiva­mente nella storia dell'alpinismo con la mia quarta prima invernale. Il Nanga Parbat è la montagna più grande del pianeta: è come fosse l'everest con un altro Everest sopra. Probabilme­nte mi è rimasta indimentic­abile anche per la squadra con la quale ho potuto condivider­e questa salita, con la bella storia della rinuncia di Tamara Lunger a 70 metri dalla vetta, che ha insegnato tanto a tutti. Questa spedizione conserva elementi in più di forgiatura personale. La identifico come la spedizione più speciale.

Cosa porta con sé quando parte per una scalata?

Io cerco sempre di stare leggero, prendo il necessario e non il superfluo, uno zaino di una quindicina di chili. Nell'himalaya ogni chilo conta e così tanto che può anche inficiare una prestazion­e. Devo essere sincero: io non sono uno che esalta il peso dello zaino quanto piuttosto la capacità di saperlo fare bene.

"Nanga Parbat, una vetta per la storia"

"Cerco di mangiare… dissociato"

Ci dice qualcosa della sua alimentazi­one prima e durante una scalata?

Sono uno al quale piace restare magro. Mi controllo, cerco di mangiare dissociato, cioè un primo e un contorno o un secondo e un contorno. Sono onnivoro, mangio di tutto, non esagero con la carne, quello posso dirlo, ma non sono né vegetarian­o né fruttarian­o, non ho niente contro chi fa scelte diverse dalla mia.

Sua moglie Barbara, sua figlia Martina e suo figlio Jonas come vivono le sue partenze e lontananze?

Sono abituati a un marito e a un padre che è arrivato a 52 anni con 60 spedizioni ed è sempre tornato a casa vivo. È stato fortunato quando doveva esserlo, ma ha lavorato tanto sulla propria fortuna, ha saputo rinunciare quando era necessario farlo… Sanno che mi muovo con la giusta quantità di fifa che bisogna avere. Io non vado in montagna a fare l'eroe e non mi racconto a loro come l'eroe senza paura.

L'emozione più grande fin qui provata?

Forse quando in cima all'everest, nel 2002 arrivai talmente presto che vidi l'alba sul punto più alto del pianeta e il primo raggio di sole che picchiò sull'everest creò un'ombra, dalla parte opposta, quindi sul versante ovest, che si prolungava per 200, 300 km verso il territorio nepalese-indiano. Vedere l'ombra del gigante del mondo a 300 km con un raggio di sole e un orizzonte con la linea curva sul punto più alto della Terra è uno spettacolo che se non sei fatto di fil di ferro ti segna per sempre. E per uno che come me crede, lì vedi anche la mano di Dio.

 ??  ?? Intervista­to da Giuseppe Zois. Già direttore del "Giornale del Popolo", Zois ha scritto per Piemme, San Paolo, Mondadori e Einaudi e, nel Ticino, per Dadò, Fontana e Ritter. La circumnavi­gazione preferita è quella attorno alle persone, al loro piccolo grande mondo di storie, emozioni, gioie, speranze e, per quanto possibile, felicità.
Intervista­to da Giuseppe Zois. Già direttore del "Giornale del Popolo", Zois ha scritto per Piemme, San Paolo, Mondadori e Einaudi e, nel Ticino, per Dadò, Fontana e Ritter. La circumnavi­gazione preferita è quella attorno alle persone, al loro piccolo grande mondo di storie, emozioni, gioie, speranze e, per quanto possibile, felicità.
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