AD (Italy)

LA CASA LA VITA

I giochi di un bambino raccolti nella dolce POESIA DELLA MEMORIA. Un racconto tra vecchi mobili e fotografie di un tempo perduto, reso magico da una lingua d’invenzione.

- di ANDREA CAMILLERI

— AD ricorda ANDREA CAMILLERI, che su queste pagine raccontò la sua idea dell’abitare.

La casa, quella vera, quella che sempre sentii interament­e mia, interament­e mia non lo fu mai. E già vedo che ci sto ragionando sopra come se si trattasse di una persona profondame­nte amata che però, di necessità, si deve spartire con gli altri. Se sto dando quest’impression­e a mia stesso, figurati come porterò a sbagliare il mio lettore: viene a dire perciò che, mettendomi su questa strada, non mi verranno mai le parole giuste per dire preciso concetto. Ricomincio, senza cadere nel sentimento. E dunque: la casa con quale abbiamo meglio campato insieme, perché magari lei, la casa, ne sono sicuro, se la scialava con me, è stata la casa di campagna dei miei nonni. Tutti la chiamavano appunto “a casa ’i campagna”, mentre lei avrebbe potuto benissimo pretendere di farsi chiamare “a villa”. Perché allora i miei non lo fecero mai? Io, quando fui più grande, ci feci pinsièro e me ne vennero due spiegazion­i. La prima era che quando venne fabbricata, alla fine del Settecento, si dicevano ville quelle che appartenev­ano ai nobili, baroni

o marchesi che fossero, mentre quelle dei ricchi burgìsi, commercian­ti o proprietar­i terrieri, erano delle case perché ci fosse, magari nel nome, una netta distinzion­e di ceto. La seconda era che nella mia casa di campagna, più che per villeggiar­e, ci si andava per travagliar­e, per badare alle necessità dei raccolti. E difatti i miei nonni e i miei zii stavano nella casa di paese soltanto quando calava l’inverno profunno. Consistend­o, l’inverno profunno, in qualche raro acquazzone, in poco vento e in un freddo che t’obbligava, nientemeno, e metterti la giacchetta e annodarti la cravatta. Tutto qua. Quando venne fabbricata, quella casa era la capintesta, l’ammiraglia di otto altre case coloniche sparse su cento e passa ettari di terreno coltivato ad àrboli di mandorle, a frumento e a fave. C’erano pure olivi saraceni, attortàti, parevano volere strisciare per terra invece d’alzarsi verso il cielo. Torno torno la casa c’era “u jardinu”, un ettaro d’àrboli da frutta: aranci,

mandarini, limoni, limongelli, pistacchi, peri, piriddra, piriazzòla, melograni, fichi, gelsi, azzalòri, pomi, nèspoli, pesche, arbicocche. Me li ricordo uno ad uno. C’era anche qualche filare di racìna, uva da tavola. Era il mio paradiso terrestre, dal quale venivo assai spesso scacciato da dolori di panza improvvisi e lancinanti che m’obbligavan­o a correre alla disperata verso casa. Finché un mio coetaneo capraro m’insegnò la suprema felicità di farla nel campo stesso, con le pàmpine di vite a far da carta. Nello splendore della sua gioventù, la casa dovette essere cosa da vedere. Dal salone grandissim­o si partiva, attraverso tre grandi finestroni, un terrazzo ch’era una piazza d’armi. Non si vedeva che la campagna e il mare lontano. Col binocolo, stavo ore a guardare le paranze, i pescherecc­i, le grandi navi che passavano al largo. Mi sognavo ammiraglio. Sotto il terrazzo, sorretto da cinque grandi arcate protette da vetri, c’era la càmmara dei bigliardi. La casa aveva davanti un cortile circondato da mura altissime, loco ideale per i duelli. Dentro il cortile s’aprivano altre costruzion­i: il palmento col suo torchio per fare il vino, il forno, la carrozzeri­a capace di otto carrozze, la stalla con dieci cavalli. Nel salone c’erano due pianòle e, tra le altre, la porta della cappella consacrata dove la domenica il parrino ci diceva messa e non aveva bisogno di portarsi niente appresso, la cappella era dotata di tutto, dai paramenti al calice d’argento. E, sempre nella cappella, c’era un’altra cosa che mi faceva sognare: la Via Crucis, tutte le stazioni in campane di vetro con i momenti della Passione scolpiti in avorio. Sognavo d’essere un cardinale, se non c’era nessuno nei dintorni, indossavo qualche paramento. E poi la cucina gigantesca, che a guardare il soffitto fatto nero dal fumo di legna pareva fosse sempre notte. Era stata, un tempo, il regno di Monzù, il cuoco francìsi. Era stata, perché quando io aprii gli occhi alla ragione, era sparito tutto, terra, case, bigliardi, carrozze cavalli, Monzù, cammarere. Restavano i

ANDREA CAMILLERI

mobili imponenti e il “jardinu” con la sua “passiata”, un lungo viale sormontato da archi che sorreggeva­no intelaiatu­re di fil di ferro interament­e ricoperte di roselline bianche. Me la facevo due volte al giorno a passo lento, accompagna­ndo il nonno che mi chiamava apposta. Era un onore, perché il nonno, una volta biondo, occhi cilestri chiarissim­i, era freddo di carattere, non dava confidenza. Ricordo l’emozione di quel giorno che si fermò e mi fece: “Saccio che scrivi poesii. Dimmene una”. Era vero, le poesie le ammucciavo, le nascondevo nel doppio fondo di un baule che stava nel magazzino. Me le mangiavano i sorci, le mie poesie. Nel magazzino c’era un’altra meraviglia, la vecchia automobile di marca Scat, senza ruote, poggiava su trespoli. Non aveva importanza, ci ho vinto la millemigli­a lo stesso, ho battuto Nuvolari. Trasformat­a in biga (facile: aprivo il soffietto, mettevo una testa di cavallo impagliata sul radiatore), ecco che mi faceva incoronare d’alloro in quelle corse che facevano i romani. La casa dimostrò il cuore che aveva durante i bombardame­nti del ’42; diede ricetto a decine di famiglie sfollate, si allocarono magari nel palmeto. Non c’era la luce elettrica, arrivò verso gli anni ’50. Dovunque c’erano candele e lumi a pitroglio: contribuiv­ano a formare, con sciàuro della frutta, delle olive, della zàgara, delle sarde salate, del cacio col pepe, del girsomìno, del pane appena sfornato, l’inconfondi­bile e non descrivibi­le odore della casa. Morti i nonni, invecchiat­i gli zii, spersi i nipoti, la casa principiò a sentirsi trascurata, il “jardinu” s’inselvaggì, caddero gli archi. In tre passate successive ladri esperti prima caricarono su un camion mobili e cose del Settecento, dopo quelli dell’Ottocento e infine quelli del Novecento. Forzarono il magazzino e si portarono via le seggie di Vienna, le Singer preistoric­he, l’alte campane di vetro con gli uccelli tropicali impagliati. Ora mi vengono a dire che, per testamento, un quarto della casa è diventato mio. Ma io sono anni che non ci voglio andare a trovarla, la mia casa. M’hanno detto delle larghe crepe lungo i muri, del mezzo tetto crollato. Non me la sento di assistere alla sua terribile agonia. Ne serbo gelosament­e le chiavi, questo sì. □

«ARRIVA UN MOMENTO NEL QUALE T’ADDUNI, T’ACCORGI CHE LA TUA VITA È CANGIATA».

 ??  ?? LO SPAZIO DELL’INVENZIONE. a sinistra: Andrea Camilleri ritratto nel 1995 nella sua casa romana dove, fino alla morte, ha vissuto con l’inseparabi­le moglie Rosetta Dello Siesto.
LO SPAZIO DELL’INVENZIONE. a sinistra: Andrea Camilleri ritratto nel 1995 nella sua casa romana dove, fino alla morte, ha vissuto con l’inseparabi­le moglie Rosetta Dello Siesto.
 ??  ?? EMOZIONI DAL PASSATO. sopra: tra i pizzi di un centrino spicca una fotografia della villa di campagna (“a casa ’i campagna”) dei nonni di Camilleri dove da bambino lo scrittore si recava insieme ai genitori in villeggiat­ura, ma anche per dare una mano ai vecchi durante il periodo dei raccolti. Con la scomparsa dei nonni, la dimora, lasciata senza cura e oggetto di saccheggi, visse una lenta rovina. in alto: armadio di famiglia realizzato a fine ’800 con preziose decorazion­i dalla famosa manifattur­a Ducrot.
EMOZIONI DAL PASSATO. sopra: tra i pizzi di un centrino spicca una fotografia della villa di campagna (“a casa ’i campagna”) dei nonni di Camilleri dove da bambino lo scrittore si recava insieme ai genitori in villeggiat­ura, ma anche per dare una mano ai vecchi durante il periodo dei raccolti. Con la scomparsa dei nonni, la dimora, lasciata senza cura e oggetto di saccheggi, visse una lenta rovina. in alto: armadio di famiglia realizzato a fine ’800 con preziose decorazion­i dalla famosa manifattur­a Ducrot.
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