UNO ZERO CHE VALE TANTO
— Il sistema ZERO e i maestri, i mobili, le visioni di ZERODISEGNO (90), cronache di un’avventura creativa di successo.
Con Zero, ingegnoso giunto a sei connessioni, e poi con gli arredi Zerodisegno, CARLO POGGIO ha lasciato un segno profondo nell’industrial e nel furniture design. I pezzi di Denis Santachiara e Karim Rashid, le collezioni di Alessandro Mendini e il mondo Nobody’s Perfect di Gaetano Pesce hanno fatto storia.
La storia di Carlo Poggio è una storia molto italiana. Perché è una storia di un imprenditore che si appassiona più al pensare e al fare che al guadagnare. Poggio si muove nel solco di una dinastia di gente intraprendente: il nonno materno Carlo Quattrocchio che ad Alessandria aveva fondato nel 1918 una ditta col suo nome per costruire biciclette di lusso; e poi il papà Pino Poggio che nel 1946 alla bici aggiunse un motore Garelli e creò il Mosquito, un bestseller mandato in soffitta dall’avvento dell’utilitaria, evento che costrinse l’azienda a cambiare obiettivi e specializzarsi, con successo, nella produzione di espositori pubblicitari metallici. Ma a Carlo non basta. Il suo temperamento creativo e sognatore gli “impone” di fare da sé, di crearsi un proprio personalissimo futuro. Cosa che puntualmente fa. Lavorando su un’intuizione di Beppe Gallini ZZ
(«mitico» lo definisce) e affiancato dal team della Quattrocchio sviluppa un flessibilissimo sistema modulare per allestimenti museali, scenografici, fieristici. A formarlo sono elementi metallici infulcrati su un nodo, un vero capitello, che ne garantisce la connessione in ben sei direzioni. Un colpo di genio. Poggio ne fa un marchio e lo battezza Zero, nome che sarà fonte di infiniti calembours, ottimi per comunicare la nuova azienda con garbata autoironia letteraria e grafica. Zero sfonda in tutto il mondo, apre una filiale e uno showroom in America, trasforma il telaio d’allestimento in una forma d’arte: crea installazioni fantastiche come quelle al Padiglione Italia all’Expo di Tokyo, o a Palazzo Callori a Vignale Monferrato. Ma a Poggio di nuovo non basta. Con Zero ha conosciuto il mondo del design, è divenuto amico di De Pas, D’Urbino e soprattutto di Lomazzi, un trio che pesa molto nella cultura del progetto. Vuole cimentarsi anche in questo campo e nel 1991 fonda Zerodisegno. «Per creare arredi emozionali e innovativi», spiega. Ed eterodossi, a conferma di un carattere anticonformista. D’Urbino e Lomazzi (De Pas nel frattempo è scomparso) disegnano per lui
Bokassa, un’irriverente linguaccia appendiabiti, e Octopus, altro appendiabiti, questa volta tentacolare. Dall’incontro con Denis Santachiara scaturiscono la seduta “spaziale” Lumière e la seduta
Santamonica, parente stretta e giocosa del mondo dei cartoon. Anche Karim Rashid entra nella squadra con la poltrona Kush. «Veniva sempre agli eventi che si organizzavano nello showroom americano. “Per me Zerodisegno è il massimo”, diceva, “però tu non mi fai mai lavorare”. L’ho subito accontentato e lui ha fatto una lounge chair straordinaria». Poi ci sono gli anni di Mimmo
«GIAMPIERO MUGHINI HA TRASCORSO 24 ORE DA NOI PER SEGUIRE PESCE ALL’OPERA».
CARLO POGGIO
Rotella e dei suoi esplosivi décollage che Marco Ferreri, con il suo innato humor, trasforma in indimenticabili icone di design con un sofisticato processo fisico-chimico. E ci sono quelli, di anni, di Alessandro Mendini con la collezione Diadainconsupertrafra ispirata alle 9 preposizioni della lingua italiana: 9 contenitori-scultura, 9 personaggi domestici supremamente divertenti eseguiti in 9 colori. E che dire di Gaetano Pesce? Per
Zerodisegno inventa Umbrella Chair, una seduta pieghevole e portatile che strappa l’applauso («progetto costosissimo però!»), e una famiglia che ancor oggi lascia stupefatti: Nobody’s Perfect. Arredi realizzati «colando manualmente resine in matrici di siliconica morbidezza», pezzi diversi e imperfetti perché frutto di una manualità irripetibile. «Realizzarli? Croce e delizia», ricorda Poggio, «perché in fondo a Pesce poco interessavano l’economia aziendale e la serialità, per lui contava l’imperfezione elevata ad arte, in quanto marchio di unicità». Come unica è la vita di Carlo Poggio vissuta anch’essa come un’opera d’arte globale. Nel segno del design e del fare divertendosi. Un esempio. FINE